martedì 23 giugno 2009

Corte Costituzionale, risarcimento e alternatività dell'indennizo diretto

Corte Costituzionale -Sentenza 19 giugno 2009.

Sulla base del significato proprio delle parole, secondo la loro connessione (art. 12 disposizioni sulla legge in generale), l'azione diretta contro il proprio assicuratore è configurabile come una facoltà, e quindi un'alternativa all'azione tradizionale per far valere la responsabilità dell'autore del danno.
Il nuovo sistema di risarcimento diretto non consente di ritenere escluse le azioni già previste dall'ordinamento in favore del danneggiato. Del resto, dati i limiti imposti dalla legge delega e la necessità, già sottolineata, di interpretare la normativa delegata nel significato compatibile con principi e criteri direttivi della delega stessa, la scelta del danneggiato di procedere nei soli confronti del responsabile civile trova fondamento nella normativa codicistica, non esplicitamente abrogata. Allo stesso modo in cui fu pacificamente ritenuto che l'introduzione, con l'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, dell'azione diretta contro l'assicuratore non elideva l'ordinaria azione di responsabilità civile nella circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.: v., da ultimo, Cass., sentenza 11 giugno 2008, n. 15462), parimenti, la disciplina confermativa dell'azione diretta (art. 144 Cod. ass.) e l'introduzione di un'ipotesi speciale di essa, quella contro il proprio assicuratore (art. 149), non può aver precluso l'azione di responsabilità civile.

A favore del carattere alternativo, e non esclusivo, dell'azione diretta nei soli confronti del proprio assicuratore, depone, poi, oltre all'interpretazione coerente della delega (dalla quale non sembra emergere la possibilità di uno stravolgimento del sistema), uno dei principi fondamentali della stessa, che è quello (art. 4, comma 1, letterab ) della “tutela dei consumatori e più in generale dei contraenti più deboli avuto riguardo alla correttezza dei messaggi pubblicitari e del processo di liquidazione dei sinistri, compresi gli aspetti strutturali di tale servizio”. In presenza di tale formula, appare coerente con le finalità della legge delega un rafforzamento del servizio a tutela dei consumatori e dei contraenti deboli, che si estrinseca attraverso il riconoscimento di una ulteriore modalità di tutela.

Non si ignora che l'interpretazione costituzionalmente orientata, la quale, accanto alla nuova azione diretta contro il proprio assicuratore, ammette l'esperibilità dell'azione ex art. 2054 c.c. e dell'azione diretta contro l'assicuratore del responsabile civile, apre una serie di problemi applicativi. Tuttavia, la soluzione di detti problemi esula dai limiti del giudizio costituzionale, non potendo che essere demandata agli interpreti.


Corte Costituzionale


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Francesco AMIRANTE Presidente

- Ugo DE SIERVO Giudice

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Franco GALLO "

- Luigi MAZZELLA "

- Gaetano SILVESTRI "

- Sabino CASSESE "

- Maria Rita SAULLE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "

- Giuseppe FRIGO "

- Alessandro CRISCUOLO "

- Paolo GROSSI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), promosso dal Giudice di pace di Palermo nel procedimento vertente tra X. Trasporti s.r.l. e Zurigo Assicurazioni s.a. ed altra con ordinanza del 20 marzo 2008, iscritta al n. 294 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nellaGazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 aprile 2009 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso del giudizio per risarcimento danni da incidente stradale promosso da X. Trasporti s.r.l. nei confronti di Mediterranea s.r.l. e di Zurigo Assicurazioni s.a., nelle rispettive qualità di responsabile civile del danno in quanto proprietaria del veicolo antagonista, e di compagnia che copre i rischi dalla circolazione dello stesso veicolo, il Giudice di pace di Palermo, con ordinanza depositata il 20 marzo 2008, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), per violazione degli artt. 3, 24, 76 e 111 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, la norma censurata ha previsto un'azione diretta del danneggiato nei confronti del proprio assicuratore, eliminando il diritto, spettante a qualunque danneggiato da fatto illecito, di agire (anche) contro il responsabile del danno e sostituendo alla legittimazione passiva dell'assicuratore per la r.c.a. di quest'ultimo quella dell'assicuratore dello stesso danneggiato.

Il rimettente assume la rilevanza della questione, per il fatto che, avendo la compagnia assicuratrice convenuta eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, alla luce del citato art. 149, per dover essere l'azione proposta nei soli confronti dell'assicuratore del veicolo della stessa attrice, la dichiarazione d'incostituzionalità della norma indurrebbe al rigetto dell'eccezione, mentre in caso contrario l'eccezione dovrebbe essere accolta, con conseguente rigetto della domanda.

l Giudice di pace di Palermo esclude di poter praticare un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, argomentando che l'espressione letterale della norma stessa, nel senso che “i danneggiati devono rivolgere la richiesta di risarcimento all'impresa di assicurazione che ha stipulato il contratto relativo al veicolo utilizzato” e che in caso di mancata o insufficiente offerta, “il danneggiatopuòsoli confronti della propria impresa di assicurazione”, configura per il danneggiato l'obbligo senza alternative di agire contro la propria compagnia assicuratrice. proporre l'azione diretta di cui all'articolo 145, comma 2, nei

Del resto – argomenta il rimettente – se lo scopo della norma, rivelato anche dai lavori preparatori e dalle dichiarazioni di Governo, è quello di ridurre i costi dei risarcimenti a carico delle compagnie, e così anche dei premi assicurativi, l'interpretazione non può che essere rigorosa, come si ricava anche dall'art. 150 dello stesso Codice, che, nel rimettere alla normazione secondaria procedure e rapporti tra imprese, richiama “i benefici derivanti agli assicurati dal sistema di risarcimento diretto”. Lo stesso d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254, attuativo dell'art. 150, predispone appropriati strumenti per il raggiungimento dello scopo della riduzione dei costi, escludendo che le imprese debbano sostenere spese legali e stabilendo la coincidenza tra soggetto che assiste il danneggiato e soggetto che deve formulare la proposta risarcitoria, sicché il danneggiato è di fatto impossibilitato a rivolgersi ad un professionista, e, non essendo così in grado di valutare l'offerta dell'assicurazione, finirà per accettare risarcimenti inferiori al pregiudizio realmente subito. La stessa legge delega (L. 29 luglio 2003, n. 229,Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. – Legge di semplificazione 2001 ) ha stabilito, tra i criteri direttivi dell'emanando Codice delle assicurazioni, la tutela dei consumatori e dei contraenti più deboli, cioè degli assicurati, il che potrebbe avvenire solo attraverso un abbassamento dei premi di assicurazione. In conclusione, ammettere un'interpretazione alternativa, che faccia salva la tradizionale azione di danni contro il responsabile civile, vanificherebbe l'obiettivo del legislatore, perché, rimanendo prevedibilmente marginale l'azione diretta, le compagnie dovrebbero continuare a sostenere ingenti costi per l'assistenza tecnica dei danneggiati.

Il rimettente, poi, nell'esporre le ragioni di non manifesta infondatezza della questione, denuncia la violazione dell'art. 76 Cost., perché l'azione diretta del danneggiato nei confronti del proprio assicuratore appare innovazione sostanziale e significativa, che, nel contempo, elimina il diritto, spettante a qualunque danneggiato da fatto illecito, di agire (anche) contro il responsabile del danno e sostituisce, quanto all'azione diretta, alla legittimazione passiva dell'assicuratore per la r.c.a. di quest'ultimo (pur prevista, ove manchino le condizioni di applicabilità dell'art. 149, dall'art. 144 dello stesso Codice delle assicurazioni, e, secondo la disciplina previgente, dall'art. 18 della legge n. 990 del 1969), quella dell'assicuratore dello stesso danneggiato.

Tale innovazione avrebbe dovuto essere oggetto di una delega specifica, che però non si rinviene nella legge n. 229 del 2003, la quale si proponeva semplicemente di realizzare una semplificazione ed un riassetto della legislazione assicurativa, nel rispetto dei principi indicati. Non sembra possibile giustificare le innovazioni apportate alla luce dei criteri guida della codificazione assicurativa, che sono quelli dell'adeguamento alla normativa comunitaria e della tutela del consumatore e del contraente più debole, anche riguardo alla correttezza dei procedimenti di liquidazione dei sinistri: il soggetto dichiaratamente favorito dalla nuova disciplina è il danneggiato, non l'assicurato, sia perché l'assicurazione copre i danni patiti dai terzi e non dal responsabile civile (contraente nel rapporto assicurativo), sia con riferimento al caso del danneggiato conducente di veicolo altrui. Ché anzi, il rischio di aumento delmalus che consegue a danno dell'assicurato dall'esborso del proprio assicuratore a favore di chi lamenta il danno, imporrebbe la partecipazione dell'assicurato al procedimento liquidatorio per far valere le proprie ragioni.

Neppure l'obiettivo di ridurre i costi di gestione per ottenere l'abbattimento dei premi assicurativi, può riconoscersi tra i criteri direttivi della legge delega, che indica solo la tutela giuridica dell'assicurato. Inoltre, il decreto attuativo del codice predispone gli strumenti per ridurre i costi di gestione delle imprese assicurative, ma non assicura quelli idonei a consentire che i vantaggi economici della riforma possano esser partecipati con gli assicurati (attraverso la riduzione dei premi), piuttosto che destinati a profitto d'impresa.

Il vizio di eccesso di delega è rilevabile anche sotto il profilo dell'assenza del parere del Consiglio di Stato, dato che le disposizioni recanti la procedura di risarcimento diretto (art. 149) e la relativa disciplina (articolo 150) furono inserite da ultimo nel Codice delle assicurazioni sulla base del parere reso dalle competenti Commissioni parlamentari, ma non erano presenti nello schema di decreto legislativo sul quale il Consiglio di Stato aveva previamente espresso il proprio parere.

La violazione dell'art. 3 Cost. è denunciata dal giudice a quo sotto il profilo della disparità di trattamento tra le ipotesi di diversa entità dei danni. La procedura obbligatoria del risarcimento diretto si applica infatti anche ove la persona del conducente (non, anche parzialmente, responsabile) abbia subito lesioni con postumi permanenti inabilitanti superiori al 9%. La diversità tra le due ipotesi (danni fisici lievi o danni al veicolo e danni alle cose trasportate, da un lato, e danni fisici gravi e perdita di un congiunto, dall'altro) incide ingiustificatamente non solo sulla procedura di liquidazione del danno e sul riferimento soggettivo passivo dell'azione risarcitoria diretta, ma anche sul piano sostanziale, giacché per coloro cui è applicabile la procedura ordinaria di liquidazione il risarcimento è regolato da un atto normativo primario, mentre, per coloro cui si applica la procedura di risarcimento diretto, l'art. 150 del Codice demanda a una fonte normativa secondaria di tipo regolamentare il compito di stabilire – senza, peraltro, al contempo, indicare alcun criterio direttivo – il grado di responsabilità delle parti ed i limiti di risarcibilità dei danni accessori, introducendo, attraverso la delegificazione di detta materia, una diversità di trattamento sostanziale dei diritti dei danneggiati da sinistro stradale. Se anche la procedura di risarcimento diretto fosse ritenuta vantaggiosa per il danneggiato, ne conseguirebbe l'irragionevolezza della esclusione da essa di coloro che, stante la rilevanza dei danni subiti, maggiormente ne beneficerebbero. Ove invece fosse da ritenere svantaggiosa (come in realtà), la compressione del diritto all'integrità fisica e della proprietà privata non appare bilanciata dagli interessi economici delle imprese e degli assicurati, attesa la tutela preferenziale di tali diritti.

La questione relativa alla violazione dell'art. 24 Cost. è sollevata con riguardo alla sostituzione, quale legittimato passivo dell'azione risarcitoria, dell'assicuratore del veicolo utilizzato dal danneggiato al responsabile civile e all'assicuratore di quest'ultimo, dei quali la norma censurata esclude la legittimazione passiva. Peraltro, a ritenere tuttora sussistente, nei casi in cui è applicabile la procedura di risarcimento diretto, la legittimazione passiva del responsabile civile prevista dagli artt. 2043 e 2054 cod. civ., sarebbe frustrata laratio legis dell'istituto in esame, tenuto conto che il responsabile civile nei cui confronti fosse proposta l'azione risarcitoria potrebbe chiamare in giudizio il proprio assicuratore esercitando la domanda di garanzia, con conseguente duplicazione delle spese processuali sostenute dalle imprese di assicurazione per la gestione dei sinistri, e aumento dei premi assicurativi, in contrasto con l'obiettivo del legislatore delegato.

Anche a ritenere consentita la partecipazione in giudizio del responsabile civile, la lesione del diritto di difesa sussisterebbe ugualmente: la chiamata dell'assicuratore da parte di quest'ultimo (che, ad esempio, rimanga contumace) sarebbe meramente eventuale; il danneggiato non avrebbe interesse ad esperire azione diretta contro di lui; inoltre, essendo il responsabile civile litisconsorte solo facoltativo, la sua confessione non potrebbe esser liberamente valutata dal giudice nei confronti dei litisconsorzi, come nel litisconsorzio necessario.

Ma l'aspetto più eclatante – ad avviso del rimettente – è che la sostituzione del contraddittore naturale (il danneggiante e il suo garante) del danneggiato con un soggetto del tutto estraneo al responsabile del danno, comporta che il danneggiato non può avvalersi degli ordinari mezzi istruttori, quale l'interrogatorio formale, la richiesta di ordine di esibizione della denuncia di sinistro fatta dal responsabile del danno, nonché la richiesta di ordine di esibizione della perizia comparativa effettuata anche sul veicolo assicurato o delle fotografie riproducenti quest'ultimo. Il danneggiato non potrebbe nemmeno avvalersi di uno degli elementi di prova più significativi, recentemente valorizzati dalla riforma del codice di procedura civile (che impone al convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda), e particolarmente rilevanti nell'ambito del processo del lavoro, ossia del tenore delle difese espletate nel primo atto difensivo, nonché del rilievo del comportamento processuale e anche preprocessuale delle parti.

Il diritto di difesa del danneggiato appare poi limitato da eventuali obblighi contrattuali intercorrenti con il proprio assicuratore.

Ne risulta minata anche la parità delle armi delle parti nel processo, con violazione dell'art. 111 Cost., sia a causa degli obblighi contrattuali e legali (obbligo di denunciare il sinistro) dell'attore-danneggiato nei confronti del proprio assicuratore-convenuto, sia per la netta differenza di strumenti processuali e mezzi probatori tra le parti (ad es. l'assicuratore del danneggiato si può avvalere, contro il danneggiato, della denuncia di sinistro da lui presentata in adempimento dell'obbligo di legge, e ancora di ogni argomento di prova fondato sul suo comportamento processuale e preprocessuale, nonché, se lo ritiene conveniente, di ogni atto trasmessogli dall'assicuratore del responsabile, senza al contempo che il danneggiato attore possa chiederne utilmente l'esibizione).

2. – Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo l'inammissibilità e l'infondatezza nel merito della questione sollevata.

Secondo la difesa erariale non è adeguatamente valutata e motivata la rilevanza della questione. Il rimettente, al di là di generiche petizioni di principio, non compie alcuna verifica dei presupposti di applicabilità della procedura prevista dal censurato art. 149, e non accerta se sussista la responsabilità dell'altro conducente.

Le questioni sarebbero, nel merito, manifestamente infondate. E' da escludere che vi sia stato stravolgimento del sistema, essendosi nella sostanza costituita in capo all'assicurazione un'obbligazione finalizzata a rafforzare la posizione dell'assicurato, vittima del sinistro. La liquidazione dei danni da parte dell'assicurazione del danneggiato è operata per conto dell'impresa assicuratrice del veicolo responsabile, al fine di rendere più sollecito il risarcimento, nell'interesse del danneggiato. La regolazione dei rapporti tra le imprese avverrà successivamente; l'assicurazione del responsabile civile può intervenire in giudizio con estromissione di quella del danneggiato; è inoltre prevista la rivalsa della prima sulla seconda per quanto pagato in eccedenza.

La norma censurata non si porrebbe al di fuori dei criteri direttivi della legge delega dato che l'espressione “soggetto contraente” comprende anche il soggetto assicurato, legato da un vincolo contrattuale con la compagnia di assicurazione, rispetto alla quale, anzi, emerge la debolezza contrattuale. In sostanza, l'ambito semantico della locuzione impiegata dalla legge delega conferisce ampio margine di discrezionalità al legislatore delegato nel predisporre gli strumenti a favore del contraente più debole.

Il parere del Consiglio di Stato, non vincolante, è concepibile riguardo al corpus normativo nel suo complesso, non già riguardo alla singola disposizione normativa della legge delegata. Esso, inoltre, è richiesto proprio dalla capacità innovativa della codificazione delegata, che comporta, nelle intenzioni del legislatore, non già il semplice riordino normativo, ma il “riassetto” (come recita lo stesso titolo della legge n. 229 del 2003) della regolazione in un determinato settore, quindi con forza innovativa ben più incisiva dei semplici regolamenti di delegificazione. Dalla stessa relazione del Ministero delle attività produttive, risulta che la stesura delle norme modificate mira a migliorare il coordinamento interno con le disposizioni sulle procedure di risarcimento e sul piano formale a realizzare una maggiore chiarezza espositiva.

Riguardo alla violazione dell'art. 3 Cost., non sarebbe ravvisabile alcuna disparità di trattamento, posto che il diritto del trasportato non è sacrificato ma solo disciplinato con la previsione di una modalità di azione in giudizio, da ritenere più rapida e satisfattiva.

Con riferimento, poi, alla pretesa violazione del diritto di difesa, il giudice a quo non avrebbe considerato che non cessano di operare le presunzioni di cui all'art. 2054 cod. civ.: l'attore non risentirebbe alcun pregiudizio dall'atteggiamento processuale della convenuta.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice di pace di Palermo dubita della legittimità costituzionale dell'art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), che introduce a favore del danneggiato in incidente stradale una speciale azione diretta da esperire contro il proprio assicuratore, per violazione degli artt. 3, 24, 76 e 111 della Costituzione.

La norma impugnata prevede che – in ipotesi di sinistro tra due veicoli a motore identificati ed assicurati per la responsabilità civile obbligatoria, dal quale siano derivati danni ai veicoli coinvolti o ai loro conducenti – i danneggiati devono rivolgere la propria richiesta di risarcimento all'impresa di assicurazione che ha stipulato il contratto relativo al veicolo utilizzato (comma 1). La stessa disposizione non si applica ai veicoli immatricolati all'estero e limita l'applicabilità del nuovo sistema (comma 2) ai soli danni al veicolo, alle cose trasportate dell'assicurato e del conducente, e al danno alla persona del conducente non responsabile, se contenuto nel limite di cui all'art. 139 dello stesso Codice (postumi pari o inferiori al 9%).

La questione è ammissibile, avendo il rimettente adeguatamente riferito i termini rilevanti nella lite sottoposta al suo giudizio, dai quali discende l'applicabilità dell'art. 149 del Codice delle assicurazioni. Egli espone con chiarezza che la domanda verte sul risarcimento dei danni materiali, e, atteso l'oggetto della domanda, che non riguarda anche i danni alla persona, l'accertamento in ordine all'esclusiva responsabilità dell'altro conducente è irrilevante, giacché tale elemento non è posto dalla norma censurata quale condizione dell'azione da essa regolata.

2. – Nel merito la questione non è fondata.

2.1 – I profili di incostituzionalità evidenziati dal Giudice di pace di Palermo sono riconducibili a due distinti ambiti attinenti, rispettivamente, al vizio di formazione legislativa (art. 76 Cost.) e alla lesione di diritti costituzionalmente protetti (artt. 3, 24, 111 Cost.).

La lettura dell'art. 149 del Codice delle assicurazioni, da parte del Giudice di pace di Palermo, approda all'esclusività della tutela apprestata al danneggiato da sinistro stradale e all'obbligatorietà dell'azione configurata, nei casi previsti dalla stessa norma (sostanzialmente: danni ai veicoli, alle cose trasportate e alla persona del conducente con invalidità fino al 9%). La ricostruzione si basa su aspetti letterali e sistematici.

Sotto il primo profilo, l'espressione “il danneggiato può proporre l'azione diretta di cui all'articolo 145, comma 2, nei soli confronti della propria impresa di assicurazione”, non potrebbe che indurre a configurare un obbligo senza alternative, per il danneggiato, di agire contro la propria compagnia assicuratrice: secondo il rimettente l'espressione “potere nei soli confronti” esclude l'esercizio del potere nei confronti di altri.

Si può osservare in proposito che l'oggetto della perifrasi non è tanto il rapporto che, con riguardo alla proposizione di un'azione, il legislatore vuole instaurare a favore di un soggetto, quanto l'azione stessa, che è individuata nei confronti (e nei soli confronti) di un determinato soggetto, che è l'assicuratore del danneggiato.

Così individuato l'oggetto dell'azione, si passa, appunto, a stabilire la norma (anzi la facultas) agendi a favore di un soggetto, il danneggiato appunto, il quale “può” – ma non “deve” – esperire quell'azione.

Sulla base del significato proprio delle parole, secondo la loro connessione (art. 12 disposizioni sulla legge in generale), l'azione diretta contro il proprio assicuratore è configurabile come una facoltà, e quindi un'alternativa all'azione tradizionale per far valere la responsabilità dell'autore del danno.

Secondo l'interpretazione sistematica del giudice rimettente, lo scopo della norma ricavabile dai lavori preparatori sarebbe poi quello di ridurre i costi dei risarcimenti a carico delle compagnie, e così anche dei premi assicurativi. A tal fine l'applicazione del nuovo sistema non potrebbe che essere rigoroso e non ammettere alternative, come si ricaverebbe dall'art. 150 dello stesso Codice. In altre parole, lo scopo della legge verrebbe vanificato ove si pretendesse di duplicare la tutela attraverso la procedura del risarcimento diretto, con la sopravvivenza della tutela tradizionale contro il responsabile civile e l'assicuratore di quest'ultimo. Non vi sarebbe risparmio di costi e, quindi, neppure riduzione dei premi.

L'argomentazione del rimettente, sul piano degli scopi del sistema legislativo, può essere condivisibile, ma non esaurisce la spiegazione delle finalità che si pone la norma. Che il risparmio per le compagnie assicurative possa concorrere a costituire laratio legis è possibile, anche se il richiamo dell'art. 150 del Codice delle assicurazioni ai “benefici derivanti agli assicurati dal sistema di risarcimento diretto”, quale principio per la cooperazione tra le imprese di assicurazione nell'approntamento della normativa secondaria emanata in attuazione, non equivale ad un suggello della esclusività dell'azione diretta contro l'assicuratore del danneggiato qualecondicio sine qua non per l'ottenimento dello scopo di riduzione dei premi. Detto richiamo sembra, piuttosto, agevolare il conducente assicurato nella ricerca dell'interlocutore per il conseguimento della riparazione del danno subito, in fase stragiudiziale e, ove occorra, mediante l'actio iudicii.

Alla base dell'innovazione vi è, invece, l'idea che uno dei principali ostacoli allo sviluppo delle effettive condizioni di concorrenza nel mercato assicurativo è rappresentato dalla particolare natura del rapporto contrattuale che si instaura nella r.c.a.: l'indennizzato non è il cliente dell'assicurazione, ma tipicamente è una terza parte senza vincoli contrattuali con la compagnia di assicurazione tenuta ad effettuare il rimborso.

Creando la legge un rapporto diretto tra impresa e cliente, e stimolando la ricerca da parte di quest'ultimo della “miglior compagnia”, risulta forte l'incentivo per le imprese ad investire nella concorrenza sulla qualità di servizi offerti e nella efficienza nella gestione dei sinistri.

Pertanto, non è l'obbligatorietà del sistema di risarcimento diretto che impone le condizioni di un mercato concorrenziale, bensì la ricerca, da parte delle compagnie, della competitività con l'offerta di migliori servizi, e l'incentivo dei clienti non solo ad accettare quella determinata offerta contrattuale, ma a ricorrere al meccanismo, ove ve ne sia bisogno, del risarcimento diretto, come il più conveniente, ferma restando la possibilità di opzione per l'azione di responsabilità tradizionale, e per l'azione diretta contro l'assicuratore del responsabile civile.

Un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 149 consentirebbe, accanto all'azione diretta contro la compagnia assicuratrice del veicolo utilizzato, la persistenza della tutela tradizionale nei confronti del responsabile civile, dal momento che il Codice delle assicurazioni si è limitato “a rafforzare la posizione dell'assicurato rimasto danneggiato, considerato soggetto debole, legittimandolo ad agire direttamente nei confronti della propria compagnia assicuratrice, senza peraltro togliergli la possibilità di fare valere i suoi diritti secondo i principi della responsabilità civile dell'autore del fatto dannoso” (ordinanza n. 441 del 2008).

Il predetto Codice, nel quadro di un complessivo “riassetto” della materia – il termine è impiegato dal legislatore delegante, che proprio con l'art. 1 della legge n. 229 del 2003 modifica i principi ispiratori della delegazione legislativa di cui all'art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, al fine di garantire organicità e completezza della materia oggetto del riordino – introduce un meccanismo che, in presenza di certe condizioni, agevola la tutela del danneggiato e, in prospettiva, come lo stesso giudicea quo riconosce, si propone di creare le condizioni per un miglioramento delle prestazioni assicurative. Pur nell'approssimativo coordinamento delle norme del titolo X del Codice, nel loro complesso e nei rapporti con la disciplina vigente, nulla autorizza a ritenere che siano stati stravolti i principi in tema di responsabilità civile, tanto più che le norme poste dal legislatore delegato sono da interpretare nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (sentenze n. 98 del 2008 e nn. 170 e 340 del 2007).

Nella misura in cui l'azione diretta contro l'assicuratore del danneggiato non rappresenta una diminuzione di tutela, ma un ulteriore rimedio a disposizione del danneggiato, non è riconoscibile un vizio nel procedimento di formazione legislativa: il sistema di liquidazione del danno creato nell'esercizio della delega è misurabile nei termini del riassetto normativo delegato.

La non riconoscibilità del denunciato stravolgimento del sistema dà ragione del contributo consultivo offerto alla formazione del d.lgs. n. 209 del 2005 dal Consiglio di Stato (parere n. 11603/05) su uno schema che ancora non comprendeva il rimedio migliorativo descritto, tanto più che un esame puntuale della coerenza delle disposizioni recate dalla nuova normativa sull'azione diretta con i criteri direttivi della legge di delega n. 229 del 2003, è stato comunque compiutoa posteriori, in sede di consultazione sulla normativa secondaria, attuativa dell'art. 150 (pareri n. 5074/05 e n. 746/06).

Il nuovo sistema agevola i danneggiati che hanno contratto l'assicurazione (che non è dubbio rientrino in dette categorie), anche in relazione allo specifico riferimento dell'art. 4 letterab) della legge delega al “processo di liquidazione dei sinistri, compresi gli aspetti strutturali di tale servizio”: se l'ipotesi statisticamente più accreditata, che il danneggiato coincida con il conducente assicurato, costituisce attuazione del principio di tutela del consumatore posto dalla legge delega, l'estensione delle nuove modalità di tutela al conducente non contraente resta elemento neutro, dato che comunque, secondo i principi tradizionali del risarcimento diretto nell'assicurazione obbligatoria (art. 18 della legge n. 990 del 1969), il conducente dovrebbe rivolgersi ad un assicuratore con cui non ha nessun contratto. Ne viene sostanzialmente modificata la modalità di ottenimento della tutela, ma non risultano sovvertiti i criteri posti dalla legge delega. La constatazione riguarda anche l'adeguamento alla disciplina comunitaria (art. 4 letteraa ), giacché l'esperibilità dell'azione di responsabilità e di quella diretta contro l'assicuratore del responsabile civile, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, si dimostra rispettosa della direttiva 2005/14/CE: questa obbliga gli Stati membri a provvedere affinché le persone lese da un sinistro, causato da un veicolo assicurato, possano avvalersi di un'azione diretta nei confronti dell'impresa che assicura contro la responsabilità civile la persona responsabile del sinistro. Senza considerare che l'azione diretta è ora esperibile contro il proprio assicuratore, perché questi non fa altro che liquidare il dannoper conto dell'assicurazione del danneggiante (art. 149, comma 3, del Codice delle assicurazioni), tanto che la seconda può intervenire nel giudizio intrapreso dal danneggiato contro il primo, ed estrometterlo (comma 6).

La tesi dell'ammissibilità, accanto all'azione diretta, della tradizionale azione di responsabilità civile, toglie, altresì, fondamento alle censure di ordine sostanziale mosse dal rimettente, sotto i profili della lesione del diritto di azione e dei principi del giusto processo, nonché della disparità di trattamento riguardo ad altre categorie di danneggiati.

Il nuovo sistema di risarcimento diretto non consente di ritenere escluse le azioni già previste dall'ordinamento in favore del danneggiato. Del resto, dati i limiti imposti dalla legge delega e la necessità, già sottolineata, di interpretare la normativa delegata nel significato compatibile con principi e criteri direttivi della delega stessa, la scelta del danneggiato di procedere nei soli confronti del responsabile civile trova fondamento nella normativa codicistica, non esplicitamente abrogata. Allo stesso modo in cui fu pacificamente ritenuto che l'introduzione, con l'art. 18 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, dell'azione diretta contro l'assicuratore non elideva l'ordinaria azione di responsabilità civile nella circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.: v., da ultimo, Cass., sentenza 11 giugno 2008, n. 15462), parimenti, la disciplina confermativa dell'azione diretta (art. 144 Cod. ass.) e l'introduzione di un'ipotesi speciale di essa, quella contro il proprio assicuratore (art. 149), non può aver precluso l'azione di responsabilità civile.

A favore del carattere alternativo, e non esclusivo, dell'azione diretta nei soli confronti del proprio assicuratore, depone, poi, oltre all'interpretazione coerente della delega (dalla quale non sembra emergere la possibilità di uno stravolgimento del sistema), uno dei principi fondamentali della stessa, che è quello (art. 4, comma 1, letterab ) della “tutela dei consumatori e più in generale dei contraenti più deboli avuto riguardo alla correttezza dei messaggi pubblicitari e del processo di liquidazione dei sinistri, compresi gli aspetti strutturali di tale servizio”. In presenza di tale formula, appare coerente con le finalità della legge delega un rafforzamento del servizio a tutela dei consumatori e dei contraenti deboli, che si estrinseca attraverso il riconoscimento di una ulteriore modalità di tutela.

Non si ignora che l'interpretazione costituzionalmente orientata, la quale, accanto alla nuova azione diretta contro il proprio assicuratore, ammette l'esperibilità dell'azione ex art. 2054 c.c. e dell'azione diretta contro l'assicuratore del responsabile civile, apre una serie di problemi applicativi. Tuttavia, la soluzione di detti problemi esula dai limiti del giudizio costituzionale, non potendo che essere demandata agli interpreti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 76 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Palermo, con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 giugno 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2009.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

lunedì 22 giugno 2009

P.A., Occupazione sine titulo, applicabilità acquisizione in sanatoria ex art. 43 T.U. anche in epoca precedente al T.U.

Consiglio di Stato -Sezione IV - Decisione 21 aprile - 8 giugno 2009, n. 3509

La giurisprudenza della Suprema Corte e quella dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato convergono infatti nell’affermare la devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni in materia espropriativa non riconducibili, nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono alla giurisdizione esclusiva del g.a. quelle controversie in tema di risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché annullati per illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori riconosciuti alla p.a.. (ad es. SS.UU n. 26793 del 2008 e Ap. n. 9 del 2007).

In ogni caso, a prescindere da ogni ulteriore approfondimento sul merito della questione, sono le appellanti che hanno proposto il ricorso in ottemperanza al G.A.: le stesse non possono quindi ragionevolmente contestare in appello la giurisdizione del plesso volontariamente adito al solo fine di ovviare alla soccombenza, ben potendo la sentenza di cui ora si dolgono essere travolta ex post mediante la semplice formale rinuncia al ricorso introduttivo.

Infondato è il motivo mediante il quale si deduce l’inapplicabilità dell’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001 a fattispecie usurpativa perfezionatasi prima della data (30.6.2003) di entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni.

Secondo l’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale della Sezione (inaugurato da IV Sez. n. 2582 del 2007) la procedura di acquisizione “in sanatoria” dell’area occupata sine titulo descritta dall’art. 43 trova infatti in generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001.

In effetti, l'art. 57 del medesimo testo unico, richiamando i "procedimenti in corso" ha previsto norme transitorie unicamente per individuare l'ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi fisiologiche del procedimento sostanziale, mentre l'atto di acquisizione ex art. 43 è emesso ab externo del procedimento espropriativo e non rientra, pertanto, nell'ambito di operatività della normativa transitoria.

Alle considerazioni di ordine generale che precedono va aggiunto che, come ben evidenziato dal T.A.R., il comma 3 dell’art. 43 introduce comunque uno ius superveniens di carattere processuale e quindi immediatamente applicabile.

Con il terzo e quarto motivo le appellanti deducono che la richiesta del comune avente ad oggetto la richiesta di applicazione dell’art. 43 doveva essere notificata a pena di inammissibilità avendo natura di domanda riconvenzionale e che ha errato il Tribunale nel ritenere scusabile l’errore di rito in cui è incorso il patrocinio dell’ente allorchè ha proposto tale domanda con memoria non notificata.

I mezzi, che possono essere unitariamente considerati, devono essere disattesi.

Al riguardo, il Collegio è dell’avviso che la soluzione del problema in rassegna non possa che muovere dalla considerazione del carattere assolutamente peculiare che contraddistingue la domanda ex art. 43, comma 3, D.P.R. n. 327 del 2001, la quale – come di recente chiarito dalla decisione della Sezione n. 394 del 2009 - non appartiene propriamente al genus della domanda riconvenzionale, che è il solo evocato dalle appellanti.

Infatti, la domanda riconvenzionale ex art. 167 cod. proc. civ. ricorre quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, opponga una controdomanda, e cioè chieda un provvedimento positivo sfavorevole all’attore, che va oltre il rigetto della domanda principale ovvero chieda un provvedimento giu
diziale a sé favorevole, che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale; viceversa la domanda ex art. 43 comma 3 se conserva lo schema formale di quella riconvenzionale (controdomanda), si differenzia dalla sua essenza contenutistica in quanto non mira ad ampliare il thema decidendum, ma si mantiene nell’alveo di quello introdotto dall’attore, limitandosi a sollecitare, per il convenuto, una condanna ad una misura risarcitoria sì meno sgradita, ma sicuramente e potenzialmente già ricompresa nella domanda avversaria, tanto da poter essere disposta anche d’ufficio dal giudice. (dec. n. 394 del 2009 citata).

Consiglio di Stato

Sezione IV

Decisione 21 aprile - 8 giugno 2009, n. 3509

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello N.R.G. 582/2004 proposto dalle signore D. M. e P. I., rappresentate e difese dall’avvocato Alessandro Mantero ed elettivamente domiciliate in Roma, Corso Vittorio Emanuele II n. 18 presso G.M. Grez;

contro

il Comune di Cattolica, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati Maria Teresa Barbantini e Gaetano Rossi, con domicilio eletto in Roma Viale Giulio Cesare n. 14 presso lo studio del primo difensore;

e nei confronti

della società X. s.n.c. di T. M. e C., non costituita in giudizio;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna – I Sezione di Bologna n. 2160 del 2003;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione della Amministrazione appellata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla camera di consiglio del 21 aprile 2009 il Consigliere Antonino Anastasi; uditi gli avvocati Mantero e Barbantini;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.

FATTO

Con sentenza n. 806 del 1997 poi confermata in appello il T.A.R. Bologna, adito dal dante causa delle odierne appellanti, ha annullato gli atti della procedura di esproprio di una porzione del giardino della azienda alberghiera di proprietà posti in essere dal comune di Cattolica per la realizzazione di una strada.

L’interessato si è quindi rivolto allo stesso Tribunale onde ottenere l’esecuzione del giudicato e la restituzione del bene illegittimamente sottratto.

Avendo l’Amministrazione chiesto nel corso del giudizio l’applicazione dell’art. 43 comma 3 del T.U. n. 327 del 2001, la sentenza in epigrafe indicata ha accolto in parte il ricorso escludendo la restituzione del bene e condannando il comune al risarcimento del danno per equivalente in base ai criteri determinativi ivi enunciati.

La sentenza è impugnata dalle appellanti che ne chiedono in via principale la integrale riforma con restituzione del bene ablato e in via gradata la riforma per quanto attiene alla misura del risarcimento.

Si è costituita l’Amministrazione comunale instando per il rigetto del gravame.

Le parti hanno presentato memorie.

Nella camera di consiglio del 21 aprile 2009 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

L’appello non è fondato e va pertanto respinto con integrale conferma della sentenza gravata.

Da disattendere è l’eccezione mediante la quale le appellanti deducono che la controversia all’esame non rientra nella giurisdizione amministrativa.

La giurisprudenza della Suprema Corte e quella dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato convergono infatti nell’affermare la devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie relative ai comportamenti delle pubbliche amministrazioni in materia espropriativa non riconducibili, nemmeno mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere e, dunque, tenuti in carenza di potere od in via di mero fatto; conseguentemente appartengono alla giurisdizione esclusiva del g.a. quelle controversie in tema di risarcimento del danno derivante da provvedimenti che, benché annullati per illegittimità od illiceità, sono comunque riconducibili ai poteri ablatori riconosciuti alla p.a.. (ad es. SS.UU n. 26793 del 2008 e Ap. n. 9 del 2007).

In ogni caso, a prescindere da ogni ulteriore approfondimento sul merito della questione, sono le appellanti che hanno proposto il ricorso in ottemperanza al G.A.: le stesse non possono quindi ragionevolmente contestare in appello la giurisdizione del plesso volontariamente adito al solo fine di ovviare alla soccombenza, ben potendo la sentenza di cui ora si dolgono essere travolta ex post mediante la semplice formale rinuncia al ricorso introduttivo.

Infondato è il motivo mediante il quale si deduce l’inapplicabilità dell’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001 a fattispecie usurpativa perfezionatasi prima della data (30.6.2003) di entrata in vigore del T.U. sulle espropriazioni.

Secondo l’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale della Sezione (inaugurato da IV Sez. n. 2582 del 2007) la procedura di acquisizione “in sanatoria” dell’area occupata sine titulo descritta dall’art. 43 trova infatti in generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001.

In effetti, l'art. 57 del medesimo testo unico, richiamando i "procedimenti in corso" ha previsto norme transitorie unicamente per individuare l'ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi fisiologiche del procedimento sostanziale, mentre l'atto di acquisizione ex art. 43 è emesso ab externo del procedimento espropriativo e non rientra, pertanto, nell'ambito di operatività della normativa transitoria.

Alle considerazioni di ordine generale che precedono va aggiunto che, come ben evidenziato dal T.A.R., il comma 3 dell’art. 43 introduce comunque uno ius superveniens di carattere processuale e quindi immediatamente applicabile.

Con il terzo e quarto motivo le appellanti deducono che la richiesta del comune avente ad oggetto la richiesta di applicazione dell’art. 43 doveva essere notificata a pena di inammissibilità avendo natura di domanda riconvenzionale e che ha errato il Tribunale nel ritenere scusabile l’errore di rito in cui è incorso il patrocinio dell’ente allorchè ha proposto tale domanda con memoria non notificata.

I mezzi, che possono essere unitariamente considerati, devono essere disattesi.

Al riguardo, il Collegio è dell’avviso che la soluzione del problema in rassegna non possa che muovere dalla considerazione del carattere assolutamente peculiare che contraddistingue la domanda ex art. 43, comma 3, D.P.R. n. 327 del 2001, la quale – come di recente chiarito dalla decisione della Sezione n. 394 del 2009 - non appartiene propriamente al genus della domanda riconvenzionale, che è il solo evocato dalle appellanti.

Infatti, la domanda riconvenzionale ex art. 167 cod. proc. civ. ricorre quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui proposta, opponga una controdomanda, e cioè chieda un provvedimento positivo sfavorevole all’attore, che va oltre il rigetto della domanda principale ovvero chieda un provvedimento giudiziale a sé favorevole, che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale; viceversa la domanda ex art. 43 comma 3 se conserva lo schema formale di quella riconvenzionale (controdomanda), si differenzia dalla sua essenza contenutistica in quanto non mira ad ampliare il thema decidendum, ma si mantiene nell’alveo di quello introdotto dall’attore, limitandosi a sollecitare, per il convenuto, una condanna ad una misura risarcitoria sì meno sgradita, ma sicuramente e potenzialmente già ricompresa nella domanda avversaria, tanto da poter essere disposta anche d’ufficio dal giudice. (dec. n. 394 del 2009 citata).

Le osservazioni ora svolte consentono di assorbire ogni questione relativa alla scusabilità dell’errore per l’omessa notifica riconosciuta – in via peraltro meramente tuzioristica – dal Giudice di primo grado.

Con il quarto motivo le appellanti lamentano l’apoditticità della statuizione con la quale il Tribunale ha avallato la tesi della rispondenza dell’opera a interessi pubblici, senza tenere in alcun conto lo sproporzionato sacrificio che senza reali giustificazioni è stato imposto alla proprietà privata.

Il mezzo deve essere disatteso in quanto la sentenza impugnata ha invece evidenziato in modo analitico e del tutto condivisibile le ragioni in base alle quali – tenuto conto della limitatissima estensione del suolo privato occupato e della risalente data di ultimazione e apertura all’uso pubblico dell’opera stradale per cui è controversia – la discrezionale decisione dell’Amministrazione di procedere all’acquisizione sanante non esibisce quei profili di arbitrarietà o vessatorietà che le appellanti pretendono di lumeggiare sulla scorta di argomentazioni marcatamente soggettive.

Da disattendere è il motivo mediante il quale si deduce che il Tribunale avrebbe dovuto determinare l’importo risarcitorio prima di consentire l’adozione dell’atto acquisitivo del bene da parte del comune.

Infatti la sentenza impugnata ben chiaramente subordina (punto 5.4) l’adozione del provvedimento di acquisizione di cui al comma 4 dell’art. 43 al pagamento della somma previamente quantificata ai sensi del comma 6 dello stesso articolo.

Inammissibile per la sua novità e soprattutto per la estrema genericità è il motivo mediante il quale le appellanti lamentano il mancato risarcimento del danno morale patito dal loro dante causa e originario proprietario in connessione con la viziata vicenda ablatoria.

Infondato è invece il motivo volto a lamentare la mancata considerazione, da parte del primo Giudice, degli effetti di compromissione sulla residua proprietà non espropriata derivanti da una ablazione parziale.

Infatti nel quantificare il controvalore venale del bene ablato la sentenza impugnata – premesso che la sottrazione della superficie di mq. 47 non ha precluso l’uso della piscina e dell’area scoperta annessa all’albergo - rapporta esaustivamente tale valore alla funzione (del bene stesso) di complemento e valorizzazione della struttura alberghiera.

Inammissibili sono infine i motivi aggiunti, mediante i quali tuzioristicamente si contesta in sede d’appello la quantificazione dell’importo risarcitorio operata dal comune e la legittimità della successiva attività amministrativa posta in essere dall’ente locale: le relative questioni vanno infatti esaminate dal Giudice di primo grado, già peraltro adito dalle ricorrenti sia con ricorso di cognizione che con ricorso in ottemperanza.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello va quindi complessivamente respinto.

Si ravvisano peraltro giusti motivi, avuto riguardo alla peculiarità della controversia, per disporre la compensazione tra le parti delle spese e onorari del grado.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe.

Compensa tra le parti spese e onorari del grado.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 21 aprile 2009 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, nella Camera di Consiglio con l'intervento dei Signori:

Giovanni VACIRCA Presidente

Giuseppe ROMEO Consigliere

Antonino ANASTASI Consigliere, est.

Salvatore CACACE Consigliere

Sandro AURELI Consigliere

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

Antonino Anastasi

Giuseppe Romeo

venerdì 19 giugno 2009

Processo civile, portata dell''art. 281-sexies c.p.c. che limita la difesa delle parti alla sola discussione orale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE I CIVILE
Sentenza 13 marzo 2009, n. 6205


L'art. 359 c.p.c. dispone che nei procedimenti d'appello davanti alla Corte d'Appello o al Tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al Tribunale, se non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo.

L'ultimo comma dell'art. 352 c.p.c., dispone che se l'appello è proposto al Tribunale, il giudice, quando una delle parti lo richiede, dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali a norma dell'art. 190 e fissa l'udienza di discussione non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime e che la sentenza è depositata in cancelleria entro sessanta giorni successivi.

Dalla lettura coordinata delle disposizioni surrichiamate si evince che, qualora una delle parti richieda al giudice di disporre lo scambio delle comparse conclusionali a norma dell'art. 190 c.p.c., rende inapplicabile, perché incompatibile con detta disposizione di cui all'art. 352 c.p.c., l'art. 281-sexies c.p.c. dato che tale norma limita la difesa delle parti alla sola discussione orale.


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE I CIVILE

Sentenza 13 marzo 2009, n. 6205

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di opposizione, notificato il 9 luglio 2002, M.F. citava in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Deutsche Bank al fine di sentir revocare il decreto ingiuntivo n. 19776/00, emesso nei suoi confronti dal Giudice di Pace di Milano.

A sostegno della domanda l'opponente eccepiva la incompetenza territoriale del Giudice di Pace di Milano, assumendo che territorialmente competente era quello di Roma. Deduceva, altresì, di non avere mai ricevuto la notifica del decreto ingiuntivo opposto e di esserne venuto a conoscenza solo a seguito della esecuzione intrapresa nei suoi confronti dalla Deutsche Bank; la inefficacia del decreto per decorso del termine di cui all'art. 644 c.p.c.; la inesistenza del credito per nullità della clausola n. 5 del contratto di mutuo, nonché la intervenuta prescrizione del credito.

La banca opposta eccepiva la inammissibilità della opposizione, in quanto non proposta nel termine previsto per l'opposizione tardiva dall'art. 641 c.p.c. Nel merito chiedeva il rigetto dell'opposizione ed, in via riconvenzionale, nella ipotesi di revoca del decreto ingiuntivo opposto, la condanna del M. al pagamento in favore dell'opponente di Euro 1.834,14, oltre interessi convenzionali nella misura del t.u.s. maggiorato di 10 punti dal 21 maggio 2000 al saldo.

Con sentenza del 18 giugno 2003 il Giudice di Pace di Milano respingeva l'opposizione, confermando l'opposto decreto ingiuntivo.

Il M. impugnava detta sentenza dinanzi al Tribunale di Milano. Costituitasi in giudizio, la Deutsche Bank resisteva al gravame, proponendo, altresì, appello incidentale. Il Tribunale adito, con sentenza in data 10 marzo 2004 dichiarava la inammissibilità dell'opposizione avverso il decreto ingiuntivo.

Avverso detta sentenza M.F. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. La intimata Deutsche Bank s.p.a. non si è difesa in questa fase del giudizio.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denuncia illegittima decisione ex art. 281-sexies c.p.c - Nullità della sentenza e del procedimento ex art. 360, n. 4, c.p.c..

Deduce il ricorrente che il Tribunale di Milano, quale giudice d'appello avverso la sentenza del Giudice di Pace, avrebbe pronunciato sentenza ex art. 281-sexies c.p.c. con lettura contestuale alla discussione del dispositivo e della concisa esposizione dei motivi.

Siccome le norme che disciplinano la procedura del giudizio di appello nella fase decisionale non prevedono la possibilità di ricorrere alla lettura contestuale di dispositivo e motivazione come previsto dall'art. 281-sexies c.p.c. , la sentenza impugnata sarebbe nulla in quanto affetta da un vizio di procedura, che avrebbe comportato un grave pregiudizio per il diritto di difesa dell'appellante, il quale, tra l'altro, non avrebbe potuto controdedurre con memoria scritta alle eccezioni e difese sollevate dalla controparte appellata Deutsche Bank in sede di comparsa di costituzione, contenente appello incidentale.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia inesistenza della notifica del decreto ingiuntivo n. 19776/00 del Giudice di Pace di Milano - Violazione o falsa applicazione di legge artt. 641 e 650 c.p.c. in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. - Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine al suddetto punto decisivo della controversia ex art. 360, n. 5, c.p.c..

Avrebbe errato il Tribunale nel ritenere che le censure alla notifica del decreto ingiuntivo, sollevate dalla difesa del M., attengono a profili di nullità della notifica e non già di inesistenza della stessa e che, come tali, avrebbero dovuto essere eccepite con l'opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. Erroneamente il Tribunale, non avendo il M. dimostrato la mancata tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo opposto secondo quanto previsto dal citato art. 650 c.p.c., avrebbe dichiarato inammissibile la proposta opposizione.

La notifica del decreto ingiuntivo, effettuata ai sensi dell'art. 143 c.p.c., in quanto l'ufficiale giudiziario non avrebbe reperito il M. al domicilio di viale Appio Claudio, ove sarebbe risultato anagraficamente residente, sarebbe inesistente, non avendo la Deutsche Bank, su cui gravava l'onere di provare l'impossibilità di conoscenza dell'effettivo domicilio, provato di avere esperito con la dovuta diligenza tutte le ricerche del caso per rintracciare il M. Detta banca, in realtà, era bene a conoscenza dell'effettivo domicilio del M. e la prova documentale di tale conoscenza sarebbe costituita dalla missiva che l'istituto avrebbe inviato a quest'ultimo in data 1° dicembre 1999 (cioè prima della notifica del decreto ingiuntivo ai sensi dell'art. 143 c.p.c.) e che era stata regolarmente recapitata e ricevuta.

Deduce ancora il ricorrente che la sentenza impugnata paleserebbe una contraddittoria ed insufficiente motivazione laddove, posto che in sede di opposizione tardiva l'intimato debba provare la mancata tempestiva conoscenza del decreto opposto per irregolarità della notifica, afferma che l'intimato non avrebbe dato la dimostrazione della mancata conoscenza del decreto né della tempestiva proposizione dell'opposizione tardiva entro il termine di dieci giorni dal primo atto di esecuzione.

Come ampiamente dedotto e documentato nel giudizio di merito, il M. non avrebbe mai ricevuto alcuna notifica del decreto ingiuntivo opposto, del quale avrebbe avuto cognizione solo dopo l'esecuzione promossa dalla Deutsche Bank, quando si è accorto della decurtazione dello stipendio dovuto al pignoramento presso terzi della retribuzione percepita dal suo datore di lavoro: Poste Italiane s.p.a. Alla luce di quanto documentato la motivazione del Tribunale si paleserebbe contraddittoria e carente laddove si afferma che il M. non avrebbe provato la mancata tempestiva conoscenza del decreto opposto. Infatti, avendo esso provata la mancata notifica del decreto ingiuntivo, non sarebbe logicamente e giuridicamente ammissibile richiedergli la prova di una circostanza negativa, costituita dalla mancata tempestiva conoscenza del decreto stesso.

Il ricorrente avrebbe dimostrato di avere avuto conoscenza del decreto ingiuntivo solo indirettamente a seguito degli effetti della esecuzione forzata dopo essersi accorto che sul suo stipendio il datore di lavoro operava le trattenute a seguito del pignoramento. Appena avuto conoscenza del fatto avrebbe provveduto ad impugnare sia l'esecuzione che il decreto ingiuntivo. La impugnazione di quest'ultimo sarebbe avvenuta entro il termine di dieci giorni previsto dall'art. 650 c.p.c., atteso che anche il pignoramento presso terzi non gli era stato mai notificato ritualmente, avendo il ereditare seguito la medesima procedura di cui all'art. 143 c.p.c., da ritenersi nulla per le ragioni su esposte, seguita per la notificazione del decreto ingiuntivo.

Per la ipotesi che la Suprema Corte ritenga non necessari ulteriori accertamenti in fatto e ritenga di procedere alla decisione della causa nel merito ex art. 384 c.p.c., il ricorrente formula i seguenti ulteriori motivi di ricorso, già formulati nel grado di appello e assorbiti dalla dichiarazione di inammissibilità dell'opposizione: 1) incompetenza per territorio del Giudice di Pace di Milano, dovendo ritenersi territori al mente competente per territorio il Giudice di Pace di Roma, luogo di residenza del debitore, da ritenersi quale foro esclusivo ai sensi dell'art. 1469-bis c.c.; 2) inefficacia del decreto ingiuntivo opposto ex art. 644 c.p.c., essendo lo stesso stato notificato al debitore oltre il termine di 60 giorni dalla emissione; 3) infondatezza dell'ingiunzione di pagamento - nullità ex art. 1469-bis c.c. Il M. non avrebbe mai sottoscritto alcun contratto di finanziamento con la Deutsche Bank e comunque la clausola n. 5 del contratto, che prevede la decadenza dal beneficio del termine, invocata dalla Banca per richiedere rate non ancora scadute, sarebbe nulla ai sensi dell'art. 1469-bis c.c., in quanto determinerebbe a carico del consumatore ed a favore del professionista un significativo squilibrio degli obblighi e dei diritti derivanti dal contratto. Inoltre gli interressi liquidati dal Giudice di Pace non sarebbero dovuti, perche da ritenersi usurari; 4) prescrizione del credito di parte opposta, in quanto non vi sarebbe stato alcun atto interruttivo del termine quinquennale di prescrizione del credito vantato dalla Deutsche Bank.

Il primo motivo di ricorso è fondato.

Dai verbali di causa del giudizio di appello risulta che all'udienza 5 febbraio 2004 il giudice unico del Tribunale di Milano ha rinviato la causa per precisazione delle conclusioni, discussione orale e sentenza alla udienza del 9 marzo 2004.

In detta udienza, dopo aver precisato le proprie conclusioni, il difensore dell'appellante M.F. ha chiesto "termine per deposito conclusionali e memorie di replica ex art. 352 c.p.c.".

Il giudice "dato atto che è stata disposta la discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c." ha rigettato detta istanza, dopodiché le parti hanno proceduto alla discussione orale.

All'esito di tale discussione il giudice ha rinviato "per la lettura della sentenza" al 10 marzo 2004, data in cui la sentenza è stata effettivamente emessa con lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione.

Tale procedura, prevista dall'art. 281-sexies c.p.c. per il procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica per il giudizio di primo grado, non può essere applicata indiscriminatamente anche quando il Tribunale in composizione monocratica è chiamato a pronunciarsi, come nel caso di specie, in grado d'appello.

L'art. 359 c.p.c. dispone che nei procedimenti d'appello davanti alla Corte d'Appello o al Tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al Tribunale, se non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo.

L'ultimo comma dell'art. 352 c.p.c., dispone che se l'appello è proposto al Tribunale, il giudice, quando una delle parti lo richiede, dispone lo scambio delle sole comparse conclusionali a norma dell'art. 190 e fissa l'udienza di discussione non oltre sessanta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle comparse medesime e che la sentenza è depositata in cancelleria entro sessanta giorni successivi.

Dalla lettura coordinata delle disposizioni surrichiamate si evince che, qualora una delle parti richieda al giudice di disporre lo scambio delle comparse conclusionali a norma dell'art. 190 c.p.c., rende inapplicabile, perché incompatibile con detta disposizione di cui all'art. 352 c.p.c., l'art. 281-sexies c.p.c. dato che tale norma limita la difesa delle parti alla sola discussione orale.

Nel caso che ne occupa, come su detto, l'appellante ha chiesto espressamente al giudice di disporre lo scambio delle comparse conclusionali ex art. 352 c.p.c. ed il giudice ha rigettato tale richiesta, ritenendo illegittimamente che, nonostante tale richiesta, fosse ancora possibile procedere applicando il disposto dell'art. 281-sexies.

Così operando, ha violato il diritto di difesa dell'appellante; violazione che, data la sua gravità, comporta la nullità della impugnata sentenza.

Per quanto precede il motivo in esame deve essere accolto, dichiarando assorbito il secondo motivo.

In conseguenza dell'accoglimento di tale motivo la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa deve essere rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Milano in persona di altro magistrato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo; dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Milano in persona di altro magistrato.

Concorsi, utilizzazione graduatorie, manifesta costituzionalità

TAR PUGLIA SEZIONE LECCE - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE
DEL 19 MAGGIO 2009 N. 67

In particolare, si rileva che l'art. 3, comma 40, della Legge Regionale Pugliese 31 dicembre 2007, n. 40, estendendo il sistema previsto dalla normativa statale diretta a stabilizzare il personale non dirigenziale assunto a tempo determinato anche alla figura dei dirigenti delle Aziende Sanitarie Locali e occupando i posti vacanti di livello dirigenziale con detto personale a detrimento di chi ha già partecipato ad un concorso pubblico e (classificatosi quale idoneo non vincitore) è in attesa di essere nominato sui predetti posti man mano che si rendano vacanti (nell'arco temporale di validità della graduatoria concorsuale in cui è inserito), sovverte radicalmente un sistema che costituisce un'applicazione del principio costituzionale del pubblico concorso per l'accesso agli impieghi pubblici (art. 97 terzo comma della Costituzione).


T.A.R.

Puglia - Lecce

Sezione II

19 maggio 2009, n. 67

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce - Sezione Seconda

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

Sul ricorso numero di registro generale 1923 del 2008, proposto da:
P. A., rappresentato e difeso dall'avv. V. Parato, con domicilio eletto in Lecce alla Via 95° Rgt. Fanteria n. 19;

contro

- Azienda Sanitaria Locale Lecce, rappresentata e difesa dall'avv. Vito Aurelio Pappalepore, con domicilio eletto in Lecce alla P.tta San G. dei Fiorentini n. 9, presso l'avv. G. Garrisi;
- Regione Puglia, n. c.;

nei confronti di

L. G. e G. V., n. c.;

per l'annullamento

della deliberazione del Direttore Generale dell'Azienda Sanitaria Locale di Lecce n. 1481 del 1° ottobre 2008, avente ad oggetto l'approvazione degli avvisi pubblici relativi alla stabilizzazione del personale dirigenziale secondo quanto previsto dall'art. 3 comma 40 L.R. n. 40/2007; della deliberazione del Direttore Generale dell'Azienda Sanitaria Locale di Lecce n. 2009 del 23 ottobre 2008, avente ad oggetto la copertura di un posto di dirigente amministrativo mediante stipulazione di convenzione con soggetto esterno;

di ogni altro atto ad esse presupposto, collegato o consequenziale, ivi compreso il bando relativo alla figura professionale del Dirigente Amministrativo, nonché delle deliberazioni del Direttore Generale della A.S.L. di Lecce n. 234 dell'8 febbraio 2008, n. 356 del 18 febbraio 2008 e n. 44 del 22 maggio 2008, oltre alla deliberazione della Giunta Regionale Pugliese n. 1657 del 15 ottobre 2007.


Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Azienda Sanitaria Locale di Lecce;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore il dott. Giuseppe Esposito e uditi, all'udienza pubblica del giorno 26/03/2009, gli avvocati V. Parato e Sara Cacciatore per delega dell'avv. Vito Aurelio Pappalepore;


Il ricorrente - dipendente di ruolo dell'Azienda Sanitaria Locale di Lecce con la qualifica di collaboratore amministrativo, in servizio presso la struttura burocratica legale di Maglie e collocato al 6° posto della graduatoria di merito del concorso per un posto di Dirigente Amministrativo indetto dalla disciolta A.U.S.L. LE/2, approvata con deliberazione del 21/12/2006 (utilizzata sino al 5° degli idonei) - impugna:

1) la deliberazione del Direttore Generale della A.S.L. di Lecce n. 1481 dell'1/10/2008 di indizione degli avvisi pubblici relativi alla stabilizzazione del personale dirigenziale in applicazione dell'art. 3, comma 40, della Legge Regionale 31 dicembre 2007, n. 40, nella parte inerente ad un posto di Dirigente Amministrativo;

2) la deliberazione del Direttore Generale della A.S.L. di Lecce n. 2009 del 23/10/2008 avente ad oggetto il conferimento al controinteressato Dr. V. G. dell'incarico, tramite contratto a tempo determinato, di Dirigente Amministrativo dell'Area Gestione Risorse Finanziarie ex art. 15 septies, 2° comma, Decreto Lgs. n. 502/1992 e ss.mm.;

3) ogni altro atto connesso, ivi compreso l'avviso pubblico indetto per la stabilizzazione nella parte relativa al posto vacante di Dirigente Amministrativo, le deliberazioni della A.S.L. Lecce n. 356 del 18/2/2008, n. 234 dell'8/2/2008 e n. 44 del 22/5/2008, nonché la deliberazione della Giunta Regionale Pugliese n. 1657 del 15/10/2007.

Con unico articolato motivo è dedotta la violazione degli artt. 97 e 117 Cost., dell'art. 18, settimo comma, del D.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483 e dell'art. 3 della legge n. 241/90; l'illegittimità costituzionale; la violazione dei principi generali in materia concorsuale, dei doveri di buona e corretta azione amministrativa, del giusto e corretto procedimento, delle disposizioni delle leggi finanziarie nazionali e regionali in materia di perdurante efficacia delle graduatorie concorsuali e della L.R. 12 agosto 2005, n. 12 e successive modifiche ed integrazioni; l'eccesso di potere per falsa ed erronea presupposizione delle circostanze di fatto e di diritto, per illogicità e contraddittorietà, per ingiustizia manifesta, per disparità di trattamento e per irrazionalità.

Dopo avere diffusamente illustrato il fondamento in diritto delle domande azionate, il ricorrente concludeva chiedendo l'annullamento (nei limiti dell'interesse fatto valere) dei provvedimenti impugnati, previa rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 comma 40 Legge Regionale Pugliese n. 40/2007 per allegato contrasto con gli articoli 97 e 117 primo comma della Costituzione.

Si è costituita in giudizio la Azienda Sanitaria Locale di Lecce, depositando memorie difensive con le quali ha puntualmente replicato alle argomentazioni di controparte, concludendo per la declaratoria di irricevibilità/inammissibilità (sotto svariati profili) ed, in ogni caso, per la reiezione del ricorso.

Il ricorrente ha presentato, in via incidentale, istanza di sospensione dell'efficacia dei provvedimenti impugnati, che è stata abbinata al merito nella Camera di Consiglio del 15 gennaio 2009.

Alla pubblica udienza del 26 marzo 2009, su richiesta di parte, la causa è stata posta in decisione.

In via preliminare, vanno disattese le numerose eccezioni di inammissibilità del gravame sollevate dalla difesa della Azienda Sanitaria Locale resistente, in quanto:

- sussiste la giurisdizione dell'adito Giudice Amministrativo perché il ricorrente non è un partecipante o escluso dalla procedura di stabilizzazione - nella specie, peraltro, avente natura concorsuale - ma un soggetto che fa valere una posizione soggettiva qualificata e differenziata (rispetto al quisque de populo) avente consistenza di interesse legittimo;

- il ricorso cumulativo è ammissibile allorquando (come nel caso di specie) le domande impugnatorie proposte sono in qualche modo connesse in senso logico e sottendono interessi sostanziali tra loro compatibili e non completamente disomogenei;

- non vi era necessità di impugnare (tanto meno entro il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione) né la deliberazione della Giunta Regionale n. 1657 del 15/10/2007, perché estranea alla stabilizzazione del personale dirigenziale introdotta dalla successiva Legge Regionale 31 dicembre 2007, n. 40, né la delibera del Direttore Generale della A.S.L. Lecce n. 357 del 18/2/2008, non immediatamente lesiva;

- il termine di validità della graduatoria concorsuale in cui è collocato il ricorrente è stato prorogato al 31 dicembre 2008 dall'art. 1 comma 536 della Legge finanziaria n. 296 del 2006 e comunque è da ritenersi "congelato" a partire dal 1° gennaio 2008, in base alla previsione del divieto di utilizzazione delle graduatorie di concorsi già espletati per la copertura dei posti vacanti destinati all'attuazione del processo di stabilizzazione contenuta nell'art. 3, comma 40, della Legge Regionale Pugliese 31 dicembre 2007, n. 40;

-infine, non è stato dimostrato trattarsi di posto di nuova istituzione nella pianta organica dell'Ente.

Nel merito, è opportuno innanzitutto rammentare che l'art. 3, comma 40, della Legge Regionale Pugliese 31 dicembre 2007, n. 40 così dispone:

"Nel corso del triennio 2008-2010 le Aziende sanitarie e gli IRCCS pubblici procedono alla stabilizzazione del personale del ruolo della dirigenza medico-veterinaria, sanitaria, professionale, tecnica e amministrativa con incarico a tempo determinato e in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge. Entro il 31 gennaio 2008 le Aziende sanitarie e gli IRCCS pubblici provvedono alla definizione di un piano di stabilizzazione del personale, di cui al presente comma, nell'ambito dei posti vacanti della dotazione organica …… Al processo di stabilizzazione il personale, di cui al presente comma, accede, previo superamento di apposita pubblica selezione di natura concorsuale, bandita dall'Azienda sanitaria o dall'IRCCS pubblico dove presta servizio, con le procedure e i criteri previsti dal D.P.R. 10 dicembre 1997 n. 483, qualora in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti (omissis)………. Dal 1° gennaio 2008 le Aziende sanitarie e gli IRCCS pubblici per i profili professionali, oggetto di stabilizzazione, non possono procedere a indire ovvero a proseguire procedure concorsuali ovvero utilizzare le graduatorie di concorsi già espletati per la copertura dei posti vacanti destinati all'attuazione del processo di stabilizzazione…..".

Tanto premesso, il Collegio, con precipuo riferimento alle censure proposte dal ricorrente avverso l'impugnata deliberazione del Direttore Generale della Azienda Sanitaria Locale di Lecce n. 1481 del 1° ottobre 2008, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 40, della Legge Regionale Pugliese 31 dicembre 2007, n. 40, quanto meno nella parte in cui sancisce il divieto di utilizzazione delle graduatorie (valide ed efficaci) di concorsi già espletati per la copertura dei posti vacanti destinati all'attuazione del processo di stabilizzazione del personale dirigenziale.

Trattasi di questione sicuramente rilevante nel presente giudizio posto che, in difetto di accoglimento della stessa da parte della Consulta, il ricorso dovrebbe essere respinto nel merito e che, ad avviso del Tribunale, appare anche non manifestamente infondata, per le medesime ragioni condivisibilmente già evidenziate nell'ordinanza di rimessione n. 4770 del 2 ottobre 2008 emessa dalla V Sezione del Consiglio di Stato, in ordine alla similare normativa regionale pugliese sulla stabilizzazione del personale sanitario non dirigenziale (art. 30 della Legge Regionale 16 aprile 2007, n. 10), e nella quale si richiama giustamente il valore costituzionale della tutela delle aspettative di assunzione degli idonei collocati in una graduatoria concorsuale ancora valida ed efficace.

In particolare, si rileva che l'art. 3, comma 40, della Legge Regionale Pugliese 31 dicembre 2007, n. 40, estendendo il sistema previsto dalla normativa statale diretta a stabilizzare il personale non dirigenziale assunto a tempo determinato anche alla figura dei dirigenti delle Aziende Sanitarie Locali e occupando i posti vacanti di livello dirigenziale con detto personale a detrimento di chi ha già partecipato ad un concorso pubblico e (classificatosi quale idoneo non vincitore) è in attesa di essere nominato sui predetti posti man mano che si rendano vacanti (nell'arco temporale di validità della graduatoria concorsuale in cui è inserito), sovverte radicalmente un sistema che costituisce un'applicazione del principio costituzionale del pubblico concorso per l'accesso agli impieghi pubblici (art. 97 terzo comma della Costituzione).

La stabilizzazione del personale precario può sì rappresentare una scelta di carattere discrezionale del legislatore come misura rispondente a criteri di politica sociale e, quindi, un'ammissibile deroga al predetto principio fondamentale dell'impiego con le Amministrazioni Pubbliche, ma non può addirittura sovvertire in toto la normativa positiva vigente espressione di principi costituzionali consolidati.

Il sistema del concorso pubblico, del resto, è essenziale per un servizio particolarmente delicato come quello sanitario, che impone l'individuazione dei più idonei attraverso il meccanismo del concorso, con una pluralità di concorrenti e con il vaglio di una commissione di esperti, né può essere validamente surrogato da una selezione (sia pure definita di natura concorsuale) interamente riservata al personale precario da stabilizzare.

Pertanto, la scelta operata dal legislatore pugliese con l'art. art. 3, comma 40, della Legge 31 dicembre 2007, n. 40 appare anche in contrasto con i principi di ragionevolezza e di imparzialità della stessa funzione legislativa, in quanto diretta a comprimere posizioni in atto o acquisibili a seguito di concorso pubblico.

Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 40, della Legge Regionale della Puglia 31 dicembre 2007, n. 40, in relazione agli articoli 3, 97 terzo comma e 117 primo comma della Carta Costituzionale, quanto meno nella parte in cui sancisce il divieto di utilizzazione delle graduatorie concorsuali valide ed efficaci per la copertura dei posti vacanti destinati all'attuazione del processo di stabilizzazione del personale dirigenziale, sia rilevante e non manifestamente infondata e debba conseguentemente essere rimessa all'esame della Corte Costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso fino alla decisione della Consulta.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Seconda Sezione di Lecce, sospende il giudizio sul ricorso indicato in epigrafe e solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 40, della Legge Regionale della Puglia 31 dicembre 2007, n. 40, quanto meno nella parte in cui sancisce il divieto di utilizzazione delle graduatorie concorsuali valide ed efficaci per la copertura dei posti vacanti destinati all'attuazione del processo di stabilizzazione del personale dirigenziale, per contrasto con gli articoli 3, 97 terzo comma e 117 primo comma della Costituzione;

Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente della Giunta Regionale Pugliese, nonché comunicata al Presidente del Consiglio Regionale della Puglia ed ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Così deciso in Lecce nella Camera di Consiglio del giorno 26 marzo 2009 con l'intervento dei Magistrati:

Luigi Costantini, Presidente

Giuseppe Esposito, Referendario, Estensore

Simona De Mattia, Referendario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 19/05/2009.

martedì 16 giugno 2009

Cause d’invalidità delle deliberazioni delle assemblee di condominio

Cass. Civ. Sentenza 5 maggio 2009, n. 10344

Si ribadisce ancora una volta la decisione 7 marzo 2005 n. 4806 secondo cui “sono da ritenersi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale e al buon costume), con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, che incidono sui diritti individuali, sulle cose, sui servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini o comunque invalide in relazione all'oggetto"; sono, invece, annullabili "le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione o informazione in assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che richiedono maggioranze qualificate in relazione all'oggetto”

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 5 maggio 2009, n. 10344
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 12.5.2003, (…) conveniva di fronte al Giudice di pace di Taranto il Condominio di (…) chiedendone la condanna al pagamento (o alla restituzione) della somma di Euro 78,71, da lui corrisposta ed asseritamente non esigibile dal soggetto che l'aveva ottenuta.

L'attore aveva versato a tale (…) detta somma per quota di contribuzione al pagamento dell'onorario ad un tecnico per la redazione di un capitolato di appalto.

Si costituiva il Condominio, che chiedeva la reiezione della domanda.

Con sentenza in data 12/17.2.2004, l'adito giudice respingeva la domanda e regolava le spese; osservava il giudicante come dall'istruttoria svolta e dagli atti depositati fosse emerso che il complesso era costituito da tre palazzine aventi ciascuna un amministratore, nessuno dei quali era la persona, (…), la quale aveva chiesto ed ottenuto la somma suddetta; dal complesso delle delibere e delle emergenze acquisite, era risultato che tutte e tre le palazzine avevano deliberato, per ottemperare ad analoga ingiunzione dei Vigili del Fuoco, di far predisporre un capitolato per l'effettuazione di lavori resisi necessari per la sicurezza di parti pericolanti di detti edifici, dando implicitamente mandato all' E. di raccogliere le somme occorrenti per retribuire lo studio tecnico P., indicato all'uopo.

Da ciò l'investitura presuntivamente conferita al predetto per curare, per conto di tutte e tre le palazzine, l'effettuazione del capitolato: del resto, l'attore non contestava l'esattezza della quota, ma solo la legittimazione dell' (…) a riceverla.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre il (…) sulla base di due motivi; resiste con controricorso il Condominio .

All'udienza del 14.10.2008, il processo veniva rinviato a nuovo ruolo per impedimento del difensore del controricorrente; veniva poi fissata la presente udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, si lamenta violazione degli artt. 101, 115 e 320 c.p.c., art. 97 disp. att. c.c. e artt. 3 e 24 Cost, assumendosi che il verbale assembleare del 24 ottobre 2003 non era mai stato ritualmente prodotto e che pertanto il primo giudice non poteva basare, come aveva in effetti fatto, la propria decisione sulle risultanze di tale verbale.

Premesso che, dato il modestissimo valore della controversia, la stessa doveva essere ed è stata decisa secondo equità, vertendo sulla legittimazione sostanziale dell' E. a ricevere la somma di Euro 78,71, non può essere revocato in dubbio che nella specie una rituale produzione del predetto verbale non v'era stata.

Orbene, tanto non rende la sentenza carente di motivazione, atteso che il primo giudice ha esplicitato ulteriori ragioni, anche presuntive, basate sulla conformazione del complesso edilizio de quo e sul contenuto di altre delibere, queste si ritualmente prodotte, la propria decisione che non è pertanto assente né meramente apparente, ma si basa sulla situazione esistente e sulla decisione dei condomini delle tre palazzine, o, se si vuole, del supercondominio, di ovviare ad ingiunzione dei VV. FF. stante il pericolo di crollo di parti pericolanti, donde la risultante decisione di nominare un soggetto che, per conto di tutte e tre le palazzine, provvedesse a far redigere un capitolato dei lavori da eseguire.

Poiché non viene neppure adombrato che nella specie possano essere stati violati i principi informatori della materia, il primo motivo non merita accoglimento stante la derivante incompatibilità dello stesso con il giudizio di equità.

Con il secondo mezzo, ci si duole di violazione dell'art. 1136 c.c., comma 6, art. 1137 c.c., comma 2 e art. 2697 c.c., oltre che dell'art. 66 disp. att. c.c.; assumendosi che l'assemblea del 6.12.2002 era nulla, atteso che l'assemblea era stata tenuta in giorno diverso da quello in cui era stata effettivamente tenuta, come era pure nulla l'assemblea del 16.5.2003, atteso che in essa non si trattò alcuno degli argomenti inseriti all'ordine del giorno, tanto che l' (…) rassegnò le proprie dimissioni.

Ancora, l' (…) non aveva mai notificati i verbali assembleari al (…), nè aveva offerto prova di averlo fatto; tanto avrebbe procurato il vizio di mera apparenza della motivazione.

Va rilevato al riguardo in primis che le assemblee predette (e le deliberazioni ivi assunte) sarebbero state in ipotesi annullabili e non nulle, in base alla più recente, ma consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte, e che il primo Giudice espressamente enuncia che non risultano esservi state impugnative di tali delibere e va poi ribadito che la pretesa assoluta carenza di motivazione, unico vizio che sarebbe stato denunciabile in questa sede con riferimento a norme sostanziali, attesa già ricordata assenza di riferimenti ai principi informatori della materia, non sussiste affatto, atteso che, come ben poteva, il giudice di pace, pronunciando secondo equità, ha legittimamente desunto, dal contenuto delle delibere relative alle assemblee di cui sopra che l' (…) fosse stato officiato a raccogliere le quote per far svolgere il progetto dei lavori da effettuare, dato che lo stesso ricorrente enuncia che l' (…) ebbe a rassegnare le dimissioni, cosa questa che comporta ineluttabilmente che un incarico gli fosse stato in precedenza conferito.

Anche tale motivo risulta pertanto incompatibile con il giudizio di equità.

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 600,00, di cui Euro 400,00, per onorari, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2009.

martedì 9 giugno 2009

Consiglio di Stato, precesso, dimezzamento dei termini anche per i motivi aggiunti

Consiglio di Stato , sez. V, decisione 07.04.2009 n° 2149

"il Collegio ritiene che il chiarimento interpretativo della Adunanza Plenaria sulla portata del menzionato art. 23 bis della legge n. 1034/1971, debba essere mantenuto fermo nei limiti dalla stessa indicati, perché, sebbene la disciplina del rito c.d. speciale sia lacunosa e derogatoria rispetto all’impianto generale del processo ordinario, non è con il riferimento a quest’ultimo che può essere razionalizzato il rito accelerato. Ogni tentativo di uniformare il trattamento di atti, la cui analogia non è discutibile, mutuando il regime proprio del rito speciale da quello ordinario, suscita perplessità, dal momento che rimette alla discrezionalità del giudice (al riguardo non bisogna dimenticare che l’istituto dei motivi aggiunti ha avuto una lontana origine giurisprudenziale, ed è stato normativamente previsto per la prima volta con una lapidaria proposizione all’interno dell’art. 21 della legge n. 1034/1971, come modificato dalla legge n. 205/2000) l’eliminazione di possibili lacune e di intraviste discrasie, alimentando così incertezze interpretative nella materia dei termini processuali (che invece non tollera oscillazioni)."

Consiglio di Stato
Sezione V
Decisione 7 aprile 2009, n. 2149
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Quinta Sezione ANNO 2007
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso n. 3969/2007 R.G. proposto da Ga.vi.an. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Francesco Vecchione e Luigi Troiano ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Andrea Abbamonte, in Roma Via degli Avignonesi n. 5;
CONTRO
Il Comune di Amalfi, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Marco Marinaro ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Giuseppe Torre, in Roma Via Crescenzio, n. 19,
e nei confronti della
Ditta S. G., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituitasi in giudizio,
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Salerno, sez. I, 22 marzo 2007, n. 267;
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Vista la costituzione in giudizio del Comune appellato;
Viste le memorie prodotte;
Visti gli atti tutti della causa;
Visto l’art. 23 bis, comma sesto, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dalla legge 21 luglio 2000, n. 205;
Alla pubblica udienza dell’1 aprile 2008, relatore il Consigliere Michele Corradino ed uditi, altresì, gli avvocati Vecchione e Marinaro;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
Con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Salerno, sez. I, 22 marzo 2007, n. 267 è stato dichiarato inammissibile il ricorso per motivi aggiunti e improcedibile il ricorso principale (iscritto al n. 225/2004 R.G.) proposto dall’odierna appellante per ottenere l’annullamento: a) della determina dirigenziale n. 904 del 27 ottobre 2003, con le quali si è stabilito di revocare la determina n. 762 del 15 settembre 2003 e, per l’effetto, di annullare l’aggiudicazione definitiva dei lavori per cui è causa in favore della ditta ricorrente, di procedere alla escussione della garanzia fidejussoria e di procedere allo scorrimento della graduatoria; b) di ogni atto presupposto e consequenziale.
L’odierna appellante esponeva: a) di aver partecipato alla gara di appalto bandita dal Comune di Amalfi per l’affidamento dei lavori di costruzione della strada interpoderale per Sopramare, indetta con provv. n. 5463 del 18 giugno 2003, all’esito della quale era risultata provvisoriamente aggiudicataria; b) di aver ricevuto, con nota del 17 settembre 2003, formale comunicazione della avvenuta aggiudicazione, con contestuale invito – ai fini della stipula del relativo contratto – alla sottoscrizione del verbale di permanenza delle condizioni per l’immediata esecuzione dei lavori, ai sensi dell’art. 71, 3° comma d.p.r. n. 554/99; c) di avere, per tal via, formalmente chiesto di prendere visione della inerente documentazione ed, in particolare, della attestazione del direttore dei lavori resa ai sensi dell’art. 71 cit., manifestando seri dubbi sulla cantierabilità dell’opera per essere il relativo progetto in contrasto con la vigente normativa sismica; d) di avere segnatamente rappresentato – a seguito di incontro con il responsabile del procedimento – l’asserita inadeguatezza del progetto esecutivo, elaborato nell’anno 2000 sulla scorta di parametri e norme tecniche di costruzione che non potevano tenere conto del sopravvenuto aggiornamento della classificazione sismica dei Comuni della Regione Campania, approvato con deliberazione di G.R. n. 5447 del 7 novembre 2002, in virtù del quale il Comune di Amalfi era stato per la prima volta ricompreso tra quelli a rischio sismico; e) di aver, per tal via e suo malgrado, dovuto rifiutare la sottoscrizione del verbale di attestazione della sussistenza delle condizioni per l’immediata esecuzione dei lavori, all’esito di che l’Amministrazione aveva avviato il procedimento di revoca dell’aggiudicazione ed escussione della cauzione provvisoria; i) di aver inutilmente rappresentato – con apposita memoria presentata quale atto di partecipazione all’incoato procedimento sanzionatorio – l’inconferenza, ai fini delle formulate contestazioni, della validazione del progetto operata in data 15 aprile 2003, in quanto effettuata sulla scorta di mera dichiarazione del direttore dei lavori con la quale si era attestata, in assenza di apposita relazione tecnica contenente le necessarie verifiche tecniche, la non necessità di modifica dell’originario elaborato progettuale.
L’odierna appellante impugnava la conclusiva determinazione con la quale il Comune aveva proceduto all’annullamento della aggiudicazione definitiva in suo favore e alla conseguente escussione della cauzione provvisoria, estendendo il gravame a tutti gli atti antecedenti conosciuti a seguito della costituzione in giudizio dell’Amministrazione e a quelli consequenziali, ivi compresa l’aggiudicazione a favore della impresa S., cui estendeva il contraddittorio mercé la notificazione dei motivi aggiunti.
Con il ricorso in appello in epigrafe la Ga.vi.an. s.a.s. contrasta le argomentazioni del giudice di primo grado.
Il Comune di Amalfi resiste al gravame.
La Ditta S. G. non si è costituita in giudizio.
Alla pubblica udienza dell’1 aprile 2008, il ricorso in appello veniva trattenuto per la decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato e non merita di essere accolto.
Il Giudice di prime cure ha giudicato improcedibile il gravame principale, accogliendo l’eccezione con la quale veniva dedotta la tardività della notifica dei motivi aggiunti avverso il provvedimento di aggiudicazione a favore della impresa controinteressata. In proposito, veniva osservato che il principio del dimezzamento dei termini ex art. 23 bis l. TAR, introdotto dalla l. 21 luglio 2000 n. 205, trova applicazione generalizzata ed è riferita a tutti i termini e i gradi del giudizio fatta eccezione per quelli di proposizione del ricorso. Pertanto, la previsione del dimezzamento dei termini ha effetto anche in relazione al termine per la proposizione dei motivi aggiunti, ulteriore, distinto e successivo rispetto a quello dettato per la proposizione del ricorso introduttivo del giudizio. Infatti, da un lato la pendenza di un giudizio comporta la evidente conseguenza che la parte è già assistita da un difensore, a differenza della considerazione della necessità di mantenere il termine intero in sede di prima proposizione laddove la parte debba avere il tempo di rivolgersi al necessario intermediario legale; dall'altro non può rimanere senza conseguenze la scelta di utilizzare lo strumento dei motivi aggiunti, il quale nell'ottica dell'ordinamento vigente sconta anche in termini di dimezzamento dei termini gli indubbi vantaggi rispetto alla proposizione di un autonomo ricorso. L'ottica acceleratoria che permea l’intera l. n. 205 del 2000 impone di interpretare l'eccezione del dimezzamento dei termini secondo canoni di rigida tassatività; non essendo contemplata la proposizione di motivi aggiunti (sia contenenti nuove doglianze avverso gli atti già impugnati sia concernenti l'impugnazione di nuovi provvedimenti) tra le eccezioni, deve allora valere la regola della dimidiazione dei termini; incontestabile è infatti che, per le materie elencate nell'art. 23 bis, la regola è quella del dimezzamento dei termini processuali. Alla luce dell’esposto principio, secondo il primo Decidente, i motivi aggiunti notificati in data 2 marzo 2004 ed indirizzati avverso provvedimenti conosciuti all’atto del deposito nella Segreteria del Tribunale (avvenuto il 30 gennaio 2004) sono da considerarsi inammissibili, con conseguente improcedibilità (per sopravvenuta carenza di interesse) del gravame articolato in via principale.
Orbene, merita di essere integralmente confermata la tesi del primo giudicante circa l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti e l’improcedibilità del ricorso principale.
Il Collegio (anche alla stregua della più recente giurisprudenza: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 5 marzo 2008, n. 949) ritiene che per risolvere la questione del dimezzamento del termine per la proposizione dei motivi aggiunti debba essere seguito l’indirizzo giurisprudenziale affermato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2002 (ma cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 6 luglio 2002 n. 3717 secondo cui <>), la quale ha chiarito che la regola generale, nelle materie soggette alla disciplina dell’art. 23 bis della legge n. 205/2000, è quella del dimezzamento del termine, regola generale che non può che riguardare anche il termine per la proposizione dei motivi aggiunti, sia che abbiano ad oggetto nuovi provvedimenti, sia che riguardino atti già impugnati. La norma citata prevede il dimezzamento di tutti i termini processuali, “salvo quelli per la proposizione del ricorso”; tale dimezzamento risponde alla logica acceleratoria della disciplina dettata dal citato art. 23 bis l. T.A.R.; l’esclusione del ricorso di primo grado dal dimezzamento del termine ha carattere tassativo ed eccezionale; non è compromessa la tutela del cittadino a motivo delle riduzione del termine per proporre motivi aggiunti, dal momento che non è necessario affidare un nuovo mandato. Queste ragioni tuttavia non sono state ritenute decisive né dalla giurisprudenza (come è dato vedere dagli indirizzi giurisprudenziali difformi) né dalla dottrina, in quanto: - la proposizione dei motivi aggiunti ha la stessa ratio della proposizione del ricorso, per cui non vi è alcuna ragione che possa giustificare un diverso regime (Cons. Stato, sez. VI, n. 5707/2003); - la stessa formulazione letterale dell’art. 23 bis l. T.A.R. (“i termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso”) depone per l’integrità del termine per la proposizione dei motivi aggiunti, dal momento che vi è stata una significativa variazione del testo del comma 2 del citato art. 23 bis l. TAR. La versione definitiva di quest’ultimo, con la dizione “salvo quelli per la proposizione del ricorso” (e non “salvo quello”, come previsto nell’originario disegno di legge), sembra escludere dal dimezzamento dei termini non solo la proposizione del ricorso principale e di quello incidentale (come riconosciuto dalla stessa Adunanza Plenaria), ma anche dei motivi aggiunti, che “partecipano della medesima natura dei suddetti ricorsi” (Cons. Stato, sez. VI, n. 4480/2007); - la proposizione dei motivi aggiunti richiede poi la garanzia del diritto di difesa allo stesso modo di come questo viene garantito nella proposizione del ricorso, per la quale viene mantenuta l’integrità del termine per ricorrere; - sul piano sistematico, si può dire che, sebbene il rito speciale (o se si vuole, accelerato) disciplinato dall’art. 23 bis l. TAR sia un “vero e proprio microsistema, capace di autointegrarsi e di colmare eventuali lacune in base a propri autonomi principi”, il carattere eccezionale e tassativo è proprio del dimezzamento dei termini (vera eccezione rispetto alla regola ordinaria), e non dell’integrità del termine per la proposizione del ricorso, per cui è il primo che non è suscettivo di interpretazioni estensive o analogiche. Oltre tutto, la logica acceleratoria propria del “rito speciale” riguarda lo svolgimento del giudizio e non la definizione del suo oggetto mediante l’impugnativa di nuovi atti o mediante l’ampliamento delle censure avverso atti già impugnati. Le due letture dell’art. 23 bis l. TAR (l’una, contraria al dimezzamento dei termini; l’altra, favorevole) muovono, come validamente sostenuto in dottrina, da distinte ragioni, che ne condizionano l’interpretazione: la prima, attenta alla coerenza del processo amministrativo, riduce la portata della novità generalizzata del dimezzamento dei termini, in modo da salvaguardare un unico regime per atti che hanno una eadem ratio e assicurare la medesima garanzia del diritto di difesa in situazioni analoghe; la seconda, più attenta all’impianto complessivo della nuova disciplina del rito accelerato di cui all’art. 23 bis, ne valorizza le finalità acceleratorie, con il risultato di attenersi al dato letterale della norma, che non consente interpretazioni estensive o analogiche. Il giudice è però chiamato ad interpretare le norme anzitutto secondo quello che le stesse letteralmente esprimono, e in coerenza con la finalità perseguita, la quale deve comunque essere individuata alla stregua di quanto il legislatore ha disposto. Questo canone interpretativo vale ancora di più in materia di termini processuali, data la loro positività.
Orbene, se questo è il criterio che deve guidare il giudice nella interpretazione del più volte menzionato art. 23 bis l. TAR, occorre dire che l’interpretazione della Adunanza Plenaria (dec. n. 5/2002) è la più corretta, perché le obiezioni (avanti evidenziate) non sono accettabili, a meno di non volere accedere a forme di integrazione dello stesso art. 23 bis l. TAR, con il risultato di lasciare all’arbitrio dell’interprete la pretesa razionalizzazione di questo. Senza eccessivamente dilungarsi, le critiche mosse alla decisione all’Adunanza Plenaria n. 5/2002, che hanno dato vita ad orientamenti giurisprudenziali difformi da essa, non possono essere condivise perché: - il dato letterale (“salvo quelli per la proposizione del ricorso”) non può essere interpretato nel senso che “la salvezza dei termini” si riferisca a tutti i termini per la proposizione del ricorso, e quindi anche alla proposizione dei motivi aggiunti, che partecipa della stessa ratio. Il pronome plurale “quelli” indica semplicemente una concordanza con quanto prima specificato al plurale, cioè che “i termini processuali previsti sono ridotti alla metà”. Questa proposizione imponeva, per ragioni sintattiche, che il termine per la proposizione del ricorso “fatto salvo” fosse espresso al plurale e, quindi, non è significativo che vi sia stata una modifica della dizione dello stesso comma nel testo del disegno di legge originario, che risulta diverso dal testo definitivamente approvato; - la finalità acceleratoria del rito disciplinato dall’art. 23 bis l. TAR non pare possa essere messa in discussione, sebbene sia risultata di dubbia (anzi di nessuna) utilità rispetto alla finalità perseguita, giacché (anche questo è stato opportunamente osservato) non è con il dimezzamento dei termini processuali che si consegue una maggiore rapidità nell’ottenere le decisioni. Questa logica acceleratoria del rito in esame (per quanto inutilmente perseguita) deve essere tenuta presente nell’interpretarne la disciplina e, quindi, il dimezzamento dei termini non può che essere assunto quale regola generale di questo rito “speciale”, le cui eccezioni devono essere espressamente previste, come è avvenuto per quella della proposizione del ricorso; - non è consentito procedere alla assimilazione di due istituti (motivi aggiunti e proposizione del ricorso) sol perché partecipano della eadem ratio, dal momento che di tale eadem ratio il legislatore non ha tenuto conto, limitandosi a disporre “la salvezza” del solo termine per proporre il ricorso. Una tale assimilazione non è consentita neppure in presenza di una diversità di regime della impugnativa (con motivi aggiunti) di un nuovo atto sopravvenuto (connesso con uno impugnato) rispetto a quella del medesimo atto proposta in via autonoma, per la quale è stabilito il termine ordinario per la proposizione del ricorso. Questa diversità potrebbe destare stupore, qualora il differente regime riguardasse identità di atti all’interno del medesimo rito speciale, ma non invece nell’ipotesi in cui la previsione normativa consentisse di utilizzare, in alternativa alla proposizione di motivi aggiunti nel giudizio speciale già introdotto, la medesima proposizione seguendo il rito ordinario. In questa seconda ipotesi, è la parte che, pur potendo concentrare in un unico giudizio le due impugnative, preferisce avvalersi (quali che siano le ragioni: decorrenza del termine dimezzato ovvero strategia professionale consapevole) del termine ordinario per la proposizione con ricorso in via autonoma di motivi aggiunti; - da ultimo, una volta escluso che un sistema derogatorio della disciplina processuale, quale è quello disegnato dall’art. 23 bis l. TAR, possa essere sospettato di illegittimità costituzionale a motivo della particolare finalità acceleratoria della definizione delle controversie a cui questo rito si applica (Corte Cost. n. 427/1999), ogni argomento sulla compressione del diritto di difesa e sullo spazio temporale necessario per apprestare una adeguata impostazione della causa (spazio che dovrebbe identico per gli atti accomunati da una eadem ratio), si rivela inutile. La soglia di attenzione del legislatore alle ragioni del ricorrente si è arrestata alla sola fase della proposizione del ricorso, ed ha escluso positivamente ogni analoga fase, quale è quella della proposizione dei motivi aggiunti (per completezza va detto che anche il ricorso incidentale è stato, in via di interpretazione, escluso dalla eccezione della regola generale del dimezzamento del termine, e che, per questo, la decisione n. 5/2002 della Adunanza Plenaria ha ravvisato “le stesse esigenze che hanno condotto alla esclusione della regola del dimezzamento del ricorso principale”).
In conclusione, il Collegio ritiene che il chiarimento interpretativo della Adunanza Plenaria sulla portata del menzionato art. 23 bis della legge n. 1034/1971, debba essere mantenuto fermo nei limiti dalla stessa indicati, perché, sebbene la disciplina del rito c.d. speciale sia lacunosa e derogatoria rispetto all’impianto generale del processo ordinario, non è con il riferimento a quest’ultimo che può essere razionalizzato il rito accelerato. Ogni tentativo di uniformare il trattamento di atti, la cui analogia non è discutibile, mutuando il regime proprio del rito speciale da quello ordinario, suscita perplessità, dal momento che rimette alla discrezionalità del giudice (al riguardo non bisogna dimenticare che l’istituto dei motivi aggiunti ha avuto una lontana origine giurisprudenziale, ed è stato normativamente previsto per la prima volta con una lapidaria proposizione all’interno dell’art. 21 della legge n. 1034/1971, come modificato dalla legge n. 205/2000) l’eliminazione di possibili lacune e di intraviste discrasie, alimentando così incertezze interpretative nella materia dei termini processuali (che invece non tollera oscillazioni).
Inoltre, in presenza di tre diversi indirizzi interpretativi, che permangono pur dopo le indicazioni generali dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2002, non può riconoscersi il beneficio dell’errore scusabile dovendosi, in via prudenziale, improntare la propria strategia processuale all’indirizzo più restrittivo (peraltro autorevolmente sostenuto dall’Adunanza Plenaria sopra citata).
Alla stregua di tali ragioni, ribadendosi la non concedibilità del beneficio dell’errore scusabile e la insussistenza dei presupposti per sollevare la questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 23 bis l. TAR (cfr. supra) come richiesto dall’appellante, deve confermarsi la statuizione di prime cure, non solo nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il ricorso per motivi aggiunti, ma anche nella parte in cui ha dichiarato improcedibile il gravame principale atteso che l’impossibilità di demolire giuridicamente l’atto di aggiudicazione disposto in favore del controinteressato priva in via radicale l’odierna appellante dell’interesse a coltivare il ricorso principale.
Conclusivamente la sentenza impugnata merita di essere confermata.
Il Collegio ravvisa la sussistenza di motivi equitativi, attesa la complessità delle questioni trattate, per disporre la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l’appello.
Compensa le spese.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio dell’1 aprile 2008, con l'intervento dei sigg.ri:
Pres. Sergio Santoro
Cons. Aldo Fera
Cons. Marzio Branca
Cons. Michele Corradino Est.
Cons. Adolfo Metro
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Michele Corradino F.to Sergio Santoro
IL SEGRETARIO
DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 07/04/09.

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