sabato 25 novembre 2006

Corte Costituzionale, Sentenza 23 ottobre 2006 (dep. 23 novembre 2006), n. 393



Ex-Cirielli e successione di leggi nel tempo: illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, l. 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché»

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco BILE Presidente

- Giovanni Maria FLICK Giudice

- Francesco AMIRANTE ”

- Ugo DE SIERVO ”

- Romano VACCARELLA ”

- Paolo MADDALENA ”

- Alfio FINOCCHIARO ”

- Alfonso QUARANTA ”

- Franco GALLO ”

- Luigi MAZZELLA ”

- Gaetano SILVESTRI ”

- Sabino CASSESE ”

- Maria Rita SAULLE ”

- Giuseppe TESAURO ”

- Paolo Maria NAPOLITANO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 23 dicembre 2005 dal Tribunale di Bari, nel procedimento penale a carico di R. M., iscritta al n. 61 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2006 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Alfonso Quaranta.

Ritenuto in fatto

1.— Con ordinanza del 23 dicembre 2005, il Tribunale di Bari ha sollevato, in relazione all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui subordina l’applicazione delle norme contenute nell’art. 6 della medesima legge ai soli procedimenti penali in cui non sia stata dichiarata l’apertura del dibattimento».

Premette il rimettente che, nel corso di un giudizio a carico di persona imputata del reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma, del codice penale, il difensore dell’imputato aveva eccepito l’illegittimità costituzionale del predetto art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui subordina l’applicazione delle norme ivi contenute (ed, in particolare, l’art. 6, con cui è stato modificato il disposto degli artt. 157 e 160 cod. pen., relativi alla prescrizione del reato) alla condizione della mancata apertura del dibattimento nei procedimenti penali pendenti alla data di entrata in vigore della medesima legge; che la difesa aveva evidenziato tanto la rilevanza della questione – considerato che l’applicazione della nuova disciplina avrebbe comportato l’immediata declaratoria di prescrizione del reato ascritto all’imputato – quanto la non manifesta infondatezza della stessa.

Il giudice a quo reputa la questione proposta rilevante ai fini della decisione e non manifestamente infondata. Quanto al profilo della rilevanza, egli condivide l’assunto difensivo secondo cui, in caso di applicazione della nuova disciplina alla vicenda processuale al suo esame, deriverebbe la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, pronuncia «che, invece, alla stregua della disciplina originaria dell’art. 157 cod. pen., l’imputato non potrebbe invocare».

In ordine alla non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente rileva che la scelta del legislatore di rendere applicabile la disciplina della legge n. 251 del 2005 ai procedimenti pendenti, in base al criterio relativo all’avvenuta apertura del dibattimento, «non appare sorretta da giustificazioni di ordine logico», né appare ispirata a finalità tali da giustificare il diverso trattamento così riservato a diverse categorie di cittadini. A parere del giudice a quo, invero, la modifica apportata al regime della prescrizione dei reati «rappresenta un mutamento del fatto tipico, esprimendo una differente valutazione del legislatore in ordine al disvalore del reato». In tal senso deporrebbe non soltanto la contrazione dei termini di prescrizione per ampie categorie di reato, ma anche l’allungamento dei termini medesimi per altre specifiche ipotesi di reato, ritenute particolarmente allarmanti, nonché, soprattutto, il tenore inequivoco dei lavori parlamentari; e, d’altra parte – prosegue il rimettente – anche la giurisprudenza di legittimità, secondo costanti tali da assurgere a diritto vivente, ha sempre ravvisato nella disciplina della prescrizione dei reati «un elemento del fatto tipico, da valutare nell’ipotesi di successione di leggi penali». Pertanto – argomenta ancora il rimettente – la scelta del legislatore di escludere la norma di cui all’art. 6 della legge n. 251 del 2005 dal campo di applicazione del principio della retroattività della disposizione più favorevole al reo «risulta in contrasto con il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge» ed, in ogni caso, «irragionevole», in quanto condiziona l’applicabilità della nuova disciplina al verificarsi di un evento processuale (la dichiarazione di apertura del dibattimento) «assolutamente privo di significato, sotto il profilo della ragionevolezza, nel fissare un diverso trattamento dei cittadini soggetti a procedimento penale», atteso che non risultano perseguite, con tale scelta legislativa, ulteriori finalità, quali quelle di riduzione dei tempi processuali o di deflazione dei carichi degli uffici giudiziari.

Pertanto – conclude il giudice a quo – pur non potendosi denunciare, come invece dedotto dalla difesa, il contrasto della disciplina censurata con l’art. 25, secondo comma, della Costituzione – «non risultando costituzionalizzato il principio della retroattività della legge penale più favorevole per il reo» – la deroga a tale principio, pure consentita al legislatore ordinario, «non risulta sorretta da una sufficiente ragione giustificativa».

2.— Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

La difesa erariale sostiene che il quesito sottoposto all’esame della Corte, non prospettando alcuna soluzione costituzionalmente “obbligata” (ed, anzi, ammettendo una serie di possibilità nell’individuazione di una diversa fase processuale quale discrimine temporale per l’applicabilità della nuova disciplina in tema di prescrizione), risulta per ciò stesso inammissibile. In ogni caso – conclude l’Avvocatura generale dello Stato – la questione si palesa infondata, posto che, per un verso, il principio della retroattività della norma più favorevole al reo «non risponde ad un precetto costituzionale» e che, per altro verso, la scelta del legislatore pare comunque ispirata alla ragionevolezza nell’individuazione dell’apertura del dibattimento – vale a dire, il segmento del processo «legato all’inizio del momento del pieno contraddittorio», ovvero idoneo ad assicurare il rispetto del principio di «non dispersione della prova» – quale momento rilevante per l’applicazione delle nuove disposizioni.

Considerato in diritto

1.— La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Bari investe, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, l’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui subordina l’applicazione delle norme contenute nell’art. 6 della medesima legge ai soli procedimenti penali in cui non sia stata dichiarata l’apertura del dibattimento».

Il giudice rimettente ritiene che la scelta del legislatore di limitare l’applicazione delle nuove norme solo ad alcuni dei procedimenti pendenti, in base al criterio relativo all’avvenuta apertura del dibattimento, non sia «sorretta da giustificazioni di ordine logico», né ispirata a finalità tali da consentire il diverso trattamento così riservato a diverse categorie di cittadini.

2.— La norma denunciata così dispone: «Se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».

La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Bari – e rilevante nel giudizio a quo – è prospettata relativamente alla parte della norma che dispone la non applicabilità dei nuovi, più brevi, termini di prescrizione ai reati per i quali sia intervenuta, in primo grado, la dichiarazione di apertura del dibattimento.

3.— La questione è fondata.

4.— Poiché la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. si basa sull’assunto che la norma impugnata derogherebbe ingiustificatamente al disposto dell’art. 2, quarto comma, del codice penale – secondo cui «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» – occorre anzitutto stabilire se tra le «disposizioni più favorevoli al reo», cui si riferisce la citata norma codicistica, debbano rientrare esclusivamente quelle concernenti in senso stretto la misura della pena, ovvero vi si possano includere anche le norme che, riguardando ulteriori e diversi profili (come, appunto, la riduzione dei termini di prescrizione del reato), ineriscono al complessivo trattamento riservato al reo.

La norma del codice penale deve essere interpretata, ed è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (e da quella di legittimità), nel senso che la locuzione «disposizioni più favorevoli al reo» si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n. 51 el 1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996).

Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione (sentenza n. 275 del 1990) e con l’effetto da essa prodotto, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva» (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro, esprime l’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (…) l’allarme della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del materiale probatorio» (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del 1985; ordinanza n. 337 del 1999).

Pertanto, le norme sulla prescrizione dei reati, ove più favorevoli al reo, rispetto a quelle vigenti al momento della commissione del fatto, devono conformarsi, in linea generale, al principio previsto dalla citata disposizione del codice penale.

5.— Poste queste premesse, deve essere preliminarmente ribadita la giurisprudenza di questa Corte, costante nell’affermare che il regime giuridico riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua retroattività, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto la garanzia costituzionale, prevista dalla citata disposizione, concerne soltanto il divieto di applicazione retroattiva della norma incriminatrice, nonché di quella altrimenti più sfavorevole per il reo.

Da ciò discende che eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa.

6.— Nel presente giudizio la Corte è investita del compito di valutare se la scelta compiuta dal legislatore con la norma in esame sia assistita da ragioni che giustifichino la deroga, in tal modo apportata, al principio più volte richiamato.

L’individuazione dei criteri in base ai quali operare questa valutazione non può prescindere dal considerare adeguatamente la circostanza che tale principio non è affermato soltanto, come criterio generale, dall’art. 2 cod. pen., ma è stato sancito sia a livello internazionale sia a livello comunitario; tale circostanza incide sul tipo di sindacato che questa Corte deve operare quando ad esso la legge voglia derogare.

6.1.— In primo luogo, merita di essere ricordato l’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale stabilisce che «se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»: disposizione alla quale si collega la riserva dell’Italia nel senso dell’applicazione limitata ai procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione definitiva.

In relazione a tale norma di diritto internazionale convenzionale va ricordata la forza giuridica che questa Corte ha più volte riconosciuto alle norme internazionali relative ai diritti fondamentali della persona (sentenze n. 62 del 1992; n. 168 del 1994; n. 109 del 1997; n. 270 del 1999). In particolare, a proposito del Patto di New York, con la sentenza n. 15 del 1996 si è affermato che le sue norme non possono essere assunte «in quanto tali come parametri nel giudizio di costituzionalità delle leggi» (cosicché «una loro eventuale contraddizione da parte di norme legislative interne non determinerebbe di per sé – cioè indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione – un vizio d’incostituzionalità»), ma che ciò «non impedisce di attribuire a quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti, ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione».

Dal suo canto, il comma 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea – nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam il 2 ottobre 1997, ratificato con legge 16 giugno 1998, n. 209 – ha affermato che «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».

La Corte di giustizia delle Comunità europee, a sua volta, ha affermato che tali diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto, che essa garantisce (da ultimo, sentenze 12 giugno 2003, C-112/00; 10 luglio 2003, C-20/00 e C-64/00).

Di recente (sentenza 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02) la stessa Corte – decidendo un caso nel quale il primato del diritto comunitario si assumeva compromesso dalla retroattività di una disciplina che assicurava al reo un trattamento più favorevole (anche per la riduzione dei termini di prescrizione conseguente alla riduzione della misura della pena) – ha statuito che delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri fa parte il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite. Tale principio – secondo la Corte di giustizia – deve essere senz’altro osservato dal giudice interno «quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento comunitario», ma esso – si ribadisce – nel caso esaminato viene in rilievo nella sua valenza di principio generale dell’ordinamento comunitario, desunto dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dei trattati internazionali dei quali gli Stati membri sono parti contraenti.

6.2.— Il medesimo principio, sancito nell’art. 15 del già citato Patto di New York, è stato esplicitamente confermato dall’art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 – la quale viene qui richiamata, ancorché priva tuttora di efficacia giuridica, per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei – secondo cui «se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».

6.3.— Da questi dati normativi e giurisprudenziali si ricava che per le leggi in esame l’applicazione retroattiva è la regola e che tale regola è derogabile in presenza di esigenze tali da prevalere su un principio il cui rilievo, si è già osservato, non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di principio, del codice penale.

Il livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal diritto comunitario – impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del 2004; n. 10 del 1997, n. 353 e n. 171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993). Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole.

In definitiva, soltanto nel senso sopraindicato può trovare giustificazione la deroga alla applicazione retroattiva della disposizione più favorevole al reo.

In particolare – per quanto attiene al tema che qui rileva – la deroga al regime della retroattività deve ritenersi ammissibile nei confronti di norme che riducano la durata della prescrizione del reato, purché tale deroga sia non solo coerente con la funzione che l’ordinamento oggettivamente assegna all’istituto, ma anche diretta a tutelare interessi di non minore rilevanza.

7.— Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione di legittimità costituzionale in esame si risolve in quella della intrinseca ragionevolezza, ex art. 3 Cost., e dunque alla luce del principio di eguaglianza, della scelta di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.

A giudizio di questa Corte, la scelta effettuata dal legislatore con la censurata disposizione transitoria non è assistita da ragionevolezza.

L’apertura del dibattimento non è in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al già menzionato rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa (e ciò a prescindere del tutto dalla addebitabilità del ritardo nello svolgimento del processo).

Infatti, l’incombente di cui all’art. 492 del codice di procedura penale non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in particolare i riti alternativi – e, tra essi, il giudizio abbreviato – che hanno la funzione di “deflazionare” il dibattimento); né esso è incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processuali anteriori.

Del resto, se è vero che all’apertura del dibattimento questa Corte ha talora attribuito rilievo, ciò è avvenuto a fini del tutto estranei all’ambito di operatività della prescrizione: ad esempio, per individuare il momento della devoluzione, al giudice della cognizione piena del merito, di tutta la gamma delle attribuzioni giurisdizionali, anche cautelari (ordinanza n. 230 del 2005), o quello dopo il quale il danno non può più essere utilmente riparato (ordinanza n. 970 del 1988).

L’opzione compiuta dal legislatore – in relazione ai processi di primo grado già in corso – di subordinare l’efficacia, ratione temporis, della nuova disciplina sui termini di prescrizione dei reati (quando più favorevole per il reo) all’espletamento dell’incombente ex art. 492 cod. proc. pen. non si conforma, pertanto, al canone della necessaria ragionevolezza. A tal fine, non è pertinente – come fa l’Avvocatura dello Stato – né sottolineare la circostanza che si tratta di «inizio del momento del pieno contraddittorio», né invocare il principio di «non dispersione della prova», essendo evidente che l’apertura del dibattimento individua un momento prima del quale, di norma, non sono state compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate.

In conclusione, la libertà di scelta, di cui il legislatore dispone in subiecta materia, non è stata esercitata ragionevolmente.

8.— Pertanto la norma in esame – in quanto limita in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite – viola l’art. 3 della Costituzione.

Essa deve essere quindi dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2006.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 novembre 2006.

Scuola: direttiva su partecipazione studenti

Ministero Pubblica Istruzione, direttiva 10.11.2006 n° 1455

Emanate le nuove norme in materia di partecipazione studentesca.

E' quanto previsto nella direttiva n. 1455 emanata dal Ministero della Pubblica Istruzione il 10 novembre 2006, volta a conferire maggiore centralità e partecipazione degli studenti e dei genitori con l'obiettivo di "combattere e prevenire il fenomeno della dispersione scolastica, valorizzare le inclinazioni personali di ciascuno studente, e creare le migliori condizioni per l'apprendimento".

In particolare, il provvedimento indica quattro punti fondamentali in questa direzione:

  • valorizzazione del ruolo del Forum Nazionale delle Associazioni Studentesche;
  • sviluppo di azioni atte a favorire la nascita dei Forum Regionali, secondo quanto previsto dal D.P.R. 301/2005;
  • potenziamento del Forum Nazionale delle associazioni dei genitori;
  • maggior coinvolgimento dei genitori con l'obiettivo di rafforzare il partenariato educativo tra scuola e famiglia.

Il Ministero della Pubblica Istruzione.

Direttiva Prot. n. 1455, 10 novembre 2006.

"Indicazioni ed Orientamenti sulla partecipazione studentesca"

Roma, 10 novembre 2006

AI Direttori Generali capi
degli Uffici Scolastici Regionali
Loro Sedi
Al Sovrintendente Scolastico per
la Provincia di Bolzano
Al Sovrintendente Scolastico per la Provincia di Trento
All'Intendente Scolastico per la Scuola in lingua tedesca Bolzano
All'Intendente Scolastico per la Scuola Località Ladine Bolzano
Al Sovrintendente degli studi per la Regione Valle D'Aosta
Aosta
Al Coordinatore Dipartimento Istruzione Repubblica San Marino

e.p.c.
Ai Presidenti delle Consulte Provinciali degli Studenti
Ai Rappresentanti degli Studenti, di classe e di istituto
Al Forum Nazionale delle Associazioni Studentesche

La scuola di oggi non può vivere senza la partecipazione attiva e propositiva di tutti i soggetti che la compongono, compresa la componente degli studenti.

L'autonomia, infatti, attribuisce ai diversi soggetti della comunità educativa un rinnovato ed essenziale protagonismo nei processi di autogoverno dell'istituzione scolastica, esigendo da ciascuno il rispetto dei reciproci ruoli con uno spirito di cooperazione partecipativa tra i docenti, gli studenti, i dirigenti scolastici e tutto il personale. In tale contesto, il pieno coinvolgimento dei discenti nella vita democratica della comunità scolastica è diventata ora più che mai un'esigenza irrinunciabile per il corretto funzionamento della scuola dell'autonomia e per una piena realizzazione del diritto all'apprendimento e al conseguimento di risultati formativi da parte dei giovani. La partecipazione studentesca costituisce, quindi, uno dei tasselli fondamentali di una scuola moderna, capace di combattere e prevenire il drammatico fenomeno della dispersione scolastica, di mettere al centro dei suoi obiettivi la valorizzazione delle inclinazioni personali di ciascuno studente, di creare le migliori condizioni per un apprendimento efficace.

La partecipazione studentesca, del resto, si carica anche di un'insostituibile valenza educativa per la formazione di una cittadinanza consapevole dei cittadini e dei lavoratori del domani. L'esercizio della democrazia, infatti, è un diritto-dovere che va appreso e praticato giorno per giorno fin dalla più giovane età. La scuola è la palestra ideale di questa pratica, quando sviluppa nella persona che apprende la consapevolezza dei propri percorsi formativi e favorisce e sostiene un processo relazionale finalizzato alla crescita globale, nella convinzione che le ragazze e i ragazzi, attraverso l'assunzione di responsabilità partecipative, si educano al confronto ed imparano le regole fondamentali del vivere sociale.

La scuola-comunità, dunque, alla luce di quanto sopra brevemente esposto, si configura anche come luogo sociale di confronto, di partecipazione e di democrazia che contribuisce ad una formazione completa e moderna della persona. Ciò non di meno, occorre che siano sempre ben chiari ai ragazzi due concetti che la normativa vigente non manca di sottolineare.

Anzitutto si deve ribadire che l'esercizio della partecipazione è soltanto un aspetto, seppur importante, del processo educativo, tenendo sempre presente che il lungo percorso dell'apprendimento, affinché sia efficace, richiede un impegno rigoroso e continuativo di studio, fatto anche di nozionismi, fatica e disciplina.

In secondo luogo, va rammentato che partecipare significa anche assumersi delle responsabilità, adempiere i propri doveri e rispettare i diritti degli altri. È per questo che lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti affianca al novero dei diritti l'elenco dei doveri che i discenti sono tenuti ad osservare.

Tanto premesso, si rende necessario richiamare l'attenzione di tutta l'Amministrazione scolastica sulla necessità di assicurare un'effettiva centralità della componente studentesca attraverso, anzitutto, la piena attuazione della normativa vigente in materia di partecipazione responsabile degli studenti alla vita scolastica. La concreta attuazione di tale normativa, alla luce di quanto sopra illustrato, rappresenta, pertanto, una condizione imprescindibile, oltre che un dovere istituzionale, per l'affermazione di un modello di scuola volto a garantire il pieno sviluppo della persona umana e la formazione dei cittadini di domani.

In tale ottica gli Uffici Scolastici Regionali e Provinciali, in collaborazione con la Direzione Generale per lo Studente, daranno ogni utile e costruttivo apporto a sostegno della condizione studentesca, del protagonismo dei giovani e dell'impegno delle Consulte e della Associazioni Studentesche.

In attesa della riforma degli organi collegiali, gli uffici competenti debbono favorire le condizioni per rafforzare il dialogo tra le rappresentanze degli studenti e l'Amministrazione scolastica a livello territoriale, regionale e nazionale, sviluppando, altresì, le interconnessioni fra le diverse forme di rappresentanza; i Dirigenti Scolastici, dal canto loro, anche attraverso raccordi in rete tra le rispettive scuole, si renderanno parte attiva nell'incoraggiare e favorire occasioni di partecipazione responsabile degli studenti alla vita della comunità scolastica, con l'obiettivo di contribuire a rafforzare il senso di identità e di appartenenza , la solidarietà, il rispetto degli altri, il bisogno di comunicare e progettare insieme. In coerenza con tale impegno e analizzando i dati del tutto negativi emersi dal monitoraggio effettuato negli scorsi mesi dalla Direzione Generale per lo Studente, appare opportuno ricordare che, ai sensi dell'art. 6 comma 2 del D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249 lo Statuto degli Studenti e Studentesse va consegnato a ciascuno studente all'atto di iscrizione e che il regolamento d'istituto va elaborato e condiviso con tutta la comunità scolastica, ivi compresa la componente degli studenti, modulandolo sul rispetto delle normative vigenti in materia di partecipazione studentesca, con particolare riferimento al T.U. del 16 febbraio 1994, n. 297, al D.P.R. 24 giugno 1998, n. 249 e al D.P.R. 567/96 e successive modifiche.

Per avviare un reale confronto istituzionale, si ritiene opportuno valorizzare il ruolo del Forum Nazionale delle Associazioni Studentesche allargandone la partecipazione anche ad altre associazioni secondo i criteri di ammissione già previsti, nonché favorire la nascita dei Forum Regionali, come previsto dal DPR 301/2005. Si procederà inoltre, nella direzione di potenziare il Forum Nazionale delle associazioni dei genitori anche attraverso la partecipazione di rappresentanti di genitori immigrati finalizzata ad attuare una reale integrazione scolastica degli studenti stranieri e a coinvolgere maggiormente i genitori allo scopo di valorizzare e rafforzare il partenariato educativo tra scuola e famiglia.

Quest'anno ricorre, poi, il 10° anniversario dell'istituzione delle Consulte Provinciali degli studenti e tale ricorrenza sarà un'occasione preziosa per ribadire l'importanza di questi organismi di rappresentanza, promuovendo, durante tutto l'anno scolastico, nuove attività progettuali e momenti di incontro che, a livello nazionale e locale, coinvolgeranno direttamente i rappresentanti delle Consulte. Questi organismi, fondamentali per la partecipazione studentesca, hanno l'importante compito di valorizzare e supportare anche le iniziative proposte dai singoli, dai gruppi all'interno delle scuole e delle reti di scuole. Nell'intento di consentire un tempestivo avvio delle attività delle citate Consulte Provinciali e al fine di rendere il loro lavoro realmente proficuo, è necessario che queste siano insediate il più presto possibile, in modo da consentire che le attività delle stesse possano svolgersi durante tutto l'anno scolastico e non solo per pochi mesi.

A tal proposito si rammenta l'impellente necessità che improrogabilmente, entro 15 giorni dalla chiusura delle operazioni elettorali, ossia non oltre il 15 Novembre, venga indetta la prima riunione dell'assemblea degli eletti per consentire l'elezione del Presidente della Consulta.

La massima tempestività nello svolgimento delle anzidette operazioni deriva dall'esigenza di indire la I Conferenza Nazionale dei Presidenti di Consulta entro il mese di Novembre, al fine di consentire la piena operatività degli organi di rappresentanza istituzionale degli studenti sin dai primi mesi dell'anno scolastico anche a livello nazionale, stante l'importanza strategica della rapida costituzione di un soggetto istituzionale di rappresentanza studentesca con cui dialogare.

Sulla base delle segnalazioni pervenute a questo ministero da varie realtà territoriali e dalle rappresentanze degli studenti, si ravvisa, altresì, l'opportunità di sottolineare che gli uffici dovranno prestare la massima attenzione, ponendo in essere ogni opportuna azione di vigilanza e di controllo, affinché le elezioni studentesche e, in particolare, la prima assemblea di insediamento della consulta, durante la quale si terrà l'elezione degli organi di presidenza, avvengano in maniera ordinata e regolare, in ossequio a quanto previsto dalla normativa vigente, dai regolamenti delle consulte e dalle regole della convivenza civile e del rispetto reciproco. Si richiama inoltre l'attenzione sulla necessità di garantire il conseguimento delle finalità operative cui le consulte sono istituzionalmente preposte, senza che si incorra in alcuna forma di strumentalizzazione politica di questi organi. Ne segue che gli uffici dell'Amministrazione regionale e provinciale dovranno porre in essere tutte le iniziative e le modalità di attuazione più opportune per consentire un corretto e responsabile funzionamento delle Consulte degli studenti, anche dopo il loro insediamento. A tal fine, si rende necessario porre particolare attenzione sia al ruolo decisivo svolto dai docenti referenti provinciali per le consulte, sia alla predisposizione di attività di formazione per gli studenti eletti.

I docenti referenti, infatti, sono chiamati a svolgere il delicato compito di sostenere quotidianamente e concretamente le attività delle Consulte, fornendo agli studenti il necessario supporto.

Con riguardo alla formazione degli eletti, va osservato che si tratta di un'attività essenziale per mettere gli studenti in condizione di esercitare una partecipazione piena e consapevole. In questo ambito è risultato assai efficace il metodo dell'educazione fra pari con il tutoraggio dei docenti. Occorrerà, pertanto, avviare tempestivamente un percorso di formazione dei rappresentanti delle Consulte Provinciali degli Studenti con seminari regionali o interregionali, corsi di formazione che devono essere una costante anche nelle singole istituzioni scolastiche, che, anche con la possibile collaborazione delle Associazioni studentesche, devono promuovere momenti di formazione sui diritti e doveri degli studenti e sulla rappresentanza degli stessi.

In più occasioni è emersa l'esigenza di monitorare i fondi delle consulte per verificare il loro corretto utilizzo, in modo da sostenere e sviluppare le attività più significative, anche finanziariamente. A questo proposito, si coglie l'occasione per rammentare che, a partire da questo anno scolastico, è stato stanziato un aumento consistente dei fondi destinati alle consulte provinciali per poter permettere ai rappresentanti degli studenti di realizzare efficacemente i progetti da loro deliberati nelle diverse province.

Si ribadisce che la gestione dei fondi destinati alla organizzazione e al funzionamento delle consulte provinciali, nonché per l'attuazione delle iniziative, come deliberato dai competenti organi, resta assegnata agli Uffici scolastici provinciali.

È necessario valorizzare a livello nazionale e locale le migliori esperienze di partecipazione studentesca realizzate in questi anni come il Progetto Giovani, i programmi Europei di peer education e ogni altro tipo di progetto di promozione della partecipazione dei giovani alla vita istituzionale che abbia ricevuto una forte adesione da parte degli studenti. In particolare, durante questo anno scolastico, saranno promossi percorsi educativi di educazione alla legalità, di educazione alimentare, all'ambiente e allo sviluppo sostenibile.

Infine ai sensi del d.p.r. 567/96 e successive modifiche, si richiama l'attenzione sull'importanza di favorire l'apertura pomeridiana delle scuole per un potenziamento, attraverso il coinvolgimento diretto degli studenti nelle fasi progettuali, delle attività integrative e complementari finalizzate al contenimento della dispersione scolastica e del disagio giovanile: i fondi aggiuntivi, già predisposti, saranno progressivamente integrati da ulteriori finanziamenti interistituzionali.

Appena insediati i nuovi presidenti, la Direzione Generale per lo Studente promuoverà la realizzazione di una serie di incontri per aree regionali con i rappresentanti delle Consulte allo scopo di conoscere e sostenere le diverse iniziative territoriali e di collaborare all'attivazione e realizzazione di nuovi percorsi su temi di rilevante interesse ed attualità. Gli uffici scolastici regionali e provinciali forniranno ogni supporto al fine di organizzare nel migliore dei modi tali incontri.


giovedì 23 novembre 2006

Intercettazioni telefoniche: disposizioni urgenti per il riordino della normativa

Decreto Legge , testo coordinato, 22.09.2006 n° 259 , G.U. 21.11.2006

Il Giudice per le indagini preliminari (Gip) disporrà in tempi rapidi e certi la distruzione delle intercettazioni illegalmente raccolte, mentre il Pubblico ministero (Pm) dovrà chiedere la secretazione e la custodia degli atti.

E' quanto prevede il decreto-legge n. 259 del 22 settembre 2006, convertito dalla legge n. 281 del 20 novembre 2006, recante "Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche".

Le nuove misure mirano a contrastare dell'indebita diffusione e comunicazione di dati od elementi concernenti conversazioni telefoniche o telematiche illecitamente intercettate o acquisite, nonchè di informazioni illegalmente raccolte.

Ai fini di conservazione della prova dei relativi dati, inoltre, dovrà essere redatto un verbale delle operazioni di distruzione, con la sola menzione degli elementi descrittivi e il divieto di riportare il contenuto delle captazioni illecite. Il codice di procedura penale viene modificato nel senso di consentire nel dibattimento la lettura dei verbali di distruzione di cui sopra.

Nel decreto si prevede una nuova fattispecie di reato in relazione all’illecita detenzione degli atti o dei documenti indebitamente detenuti; per tale reato è prevista la reclusione da sei mesi a quattro anni, da uno a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.

(Altalex, 22 novembre 2006)

TESTO COORDINATO DEL DECRETO-LEGGE 22 settembre 2006, n.259

Testo del decreto-legge 22 settembre 2006, n. 259, coordinato con la legge di conversione 20 novembre 2006, n. 281 (in questa stessa Gazzetta Ufficiale alla pag. 3), recante: «Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche.».

(G.U. n. 271 del 21-11-2006)

Avvertenza:
Il testo coordinato qui pubblicato e' stato redatto dal Ministero della giustizia ai sensi dell'art. 11, comma 1, del testo unico delle disposizioni sulla promulgazione delle leggi, sull'emanazione dei decreti del Presidente della Repubblica e sulle pubblicazioni ufficiali della Repubblica italiana, approvato con D.P.R. 28 dicembre 1985, n. 1092, nonche' dell'art. 10, commi 2 e 3, del medesimo testo unico, al solo fine di facilitare la lettura sia delle disposizioni del decreto-legge, integrate con le modifiche apportate dalla legge di conversione, che di quelle modificate o richiamate nel decreto, trascritte nelle note. Restano invariati il valore e l'efficacia degli atti legislativi qui riportati.
Le modifiche apportate dalla legge di conversione sono stampate con caratteri corsivi.
Tali modifiche sono riportate sul video tra i segni ((...))
A norma dell'art. 15, comma 5, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attivita' di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), le modifiche apportate dalla legge di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione.

Art. 1.

1. L'articolo 240 del codice di procedura penale e' sostituito dal seguente:

«Art. 240 (Documenti anonimi ed atti relativi ad intercettazioni illegali). - 1. I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti ne' in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato.

(( 2. Il pubblico ministero dispone l'immediata secretazione e la custodia in luogo protetto dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti. Allo stesso modo provvede per i documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Di essi e' vietato effettuare copia in qualunque forma e in qualunque fase del procedimento ed il loro contenuto non puo' essere utilizzato.))

(( 3. Il pubblico ministero, acquisiti i documenti, i supporti e gli atti di cui al comma 2, entro quarantotto ore, chiede al giudice per le indagini preliminari di disporne la distruzione.))

(( 4. Il giudice per le indagini preliminari entro le successive quarantotto ore fissa l'udienza da tenersi entro dieci giorni, ai sensi dell'articolo 127, dando avviso a tutte le parti interessate, che potranno nominare un difensore di fiducia, almeno tre giorni prima della data dell'udienza.))

(( 5. Sentite le parti comparse, il giudice per le indagini preliminari legge il provvedimento in udienza e, nel caso ritenga sussistenti i presupposti di cui al comma 2, dispone la distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti di cui al medesimo comma 2 e vi da' esecuzione subito dopo alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle parti.))
(( 6. Delle operazioni di distruzione e' redatto apposito verbale, nel quale si da' atto dell'avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei supporti e degli atti di cui al comma 2 nonche' delle modalita' e dei mezzi usati oltre che dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti.».))

Riferimenti normativi:
- Si riporta il testo dell'art. 127 del codice di procedura penale:
«Art. 127 (Procedimento in camera di consiglio). - 1. uando si deve procedere in camera di consiglio, il giudice o il presidente del collegio fissa la data dell'udienza e ne fa dare avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori. L'avviso e' comunicato o notificato almeno dieci giorni prima della data predetta.
Se l'imputato e' privo di difensore, l'avviso e' dato a quello di ufficio.
2. Fino a cinque giorni prima dell'udienza possono essere presentate memorie in cancelleria.
3. Il pubblico ministero, gli altri destinatari dell'avviso nonche' i difensori sono sentiti se compaiono.
Se l'interessato e' detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, deve essere sentito prima del giorno dell'udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo.
4. L'udienza e' rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell'imputato o del condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice.
5. Le disposizioni dei commi 1, 3 e 4, sono previste a pena di nullita'.
6. L'udienza si svolge senza la presenza del pubblico.
7. Il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nel comma 1, che possono proporre ricorso per cassazione.
8. Il ricorso non sospende l'esecuzione dell'ordinanza, a meno che il giudice che l'ha emessa disponga diversamente con decreto motivato.
9. L'inammissibilita' dell'atto introduttivo del procedimento e' dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalita' di procedura, salvo che sia altrimenti stabilito. Si applicano le disposizioni dei commi 7 e 8.
10. Il verbale di udienza e' redatto soltanto in forma riassuntiva a norma dell'art. 140 comma 2.».

Art. 2.

1. All'articolo 512 del codice di procedura penale, dopo il comma 1 e' aggiunto il seguente:

«1-bis. E' sempre consentita la lettura dei verbali relativi all'acquisizione ed alle operazioni di distruzione degli atti di cui all'articolo 240».

Riferimenti normativi:
- Si riporta il testo dell'art. 512 del codice di procedura penale, come modificato dalla presente legge:
«Art. 512 (Lettura di atti per sopravvenuta impossibilita' di ripetizione). - 1. Il giudice, a richiesta di parte, dispone che sia data lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nel corso della udienza preliminare quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne e' divenuta impossibile la ripetizione.
1-bis. E' sempre consentita la lettura dei verbali relativi all'aquisizione ed alle operazioni di distruzione degli atti di cui all'art. 240».

Art. 3.

(( 1. Chiunque consapevolmente detiene gli atti, i supporti o i documenti di cui sia stata disposta la distruzione ai sensi dell'articolo 240 del codice di procedura penale e' punito con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni.))

(( 2. Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni se il fatto di cui al comma 1 e' commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.))

Art. 4.

(( 1. A titolo di riparazione puo' essere richiesta all'autore della pubblicazione degli atti o dei documenti di cui al comma 2 dell'articolo 240 del codice di procedura penale, al direttore responsabile e all'editore, in solido fra loro, una somma di denaro determinata in ragione di cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da 50.000 a 1.000.000 di euro secondo l'entita' del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico. In ogni caso, l'entita' della riparazione non puo' essere inferiore a 10.000 euro.))

(( 2. L'azione puo' essere proposta da parte di coloro a cui i detti atti o documenti fanno riferimento. L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della pubblicazione. Agli effetti della prova della corrispondenza degli atti o dei documenti pubblicati con quelli di cui al comma 2 dell'articolo 240 del codice di procedura penale fa fede il verbale di cui al comma 6 dello stesso articolo. Si applicano, in quanto compatibili, le norme di cui al capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile.))

(( 3. L'azione e' esercitata senza pregiudizio di quanto il Garante per la protezione dei dati personali possa disporre ove accerti o inibisca l'illecita diffusione di dati o di documenti, anche a seguito dell'esercizio di diritti da parte dell'interessato.))

(( 4. Qualora sia promossa per i medesimi fatti di cui al comma 1 anche l'azione per il risarcimento del danno, il giudice tiene conto, in sede di determinazione e liquidazione dello stesso, della somma corrisposta ai sensi del comma 1.))

Riferimenti normativi:
- Il capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile tratta dei procedimenti cautelari.

Art. 5.

1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e sara' presentato alle Camere per la conversione in legge.

lunedì 20 novembre 2006

Ristrutturazione edilizia: contenuti e limiti della fattispecie

Consiglio di Stato
Sezione V
Sentenza 30 agosto 2006, n. 5061
(Pres. Santoro, Est. Branca)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE
Sezione Quinta
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 2719 del 2002, proposto dal sig. S. R., rappresentato e difeso dagli avv.ti Raffaele Izzo e Luciano Nizzola, elettivamente domiciliato presso il primo in Roma, via Cicerone 28
contro
Comune di Savigliano, rappresentato e difeso dall’avv. Teresio Bosco e dall’avv. Lucio Anelli, elettivamente domiciliato presso il secondo in Roma, via della Scrofa 47
e
la D. di L. G., rappresentata e difesa dagli avvocati Piero Golinelli e Riccardo Dalla Vedova, selettivamente domiciliata presso il secondo in Roma, via Bachelet 12
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte 13 marzo 2002 n. 627, resa tra le parti.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio degli appellati;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla pubblica udienza del 28 marzo 2005 il consigliere Marzio Branca, e uditi gli avvocati Raffaele Izzo, Maurizio Goria per delega di Luciano Nizzola, Terenzio Bosco, Lucio Anelli, Riccardo Dalla Vedova;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Con la sentenza in epigrafe è stato respinto, per la parte largamente prevalente, il ricorso proposto dal sig. S. R. per l’annullamento della concessione edilizia rilasciata dal Comune di Savigliano alla D. di L. G. per la ristrutturazione di un fabbricato a prevalente destinazione residenziale.
Il TAR ha ritenuto che non fosse stata provata la violazione della normativa urbanistica ed edilizia vigente nel Comune, tenuto conto che nel concetto di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 31 della legge n. 457 del 1978 possono comprendersi anche interventi che implichino la demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente, con modificazioni anche volumetriche.
Il sig. R. ha proposto appello per la riforma della sentenza assumendone l’erroneità.
Si sono costituiti in giudizio per resistere al gravame il Comune di Savigliano e la D..
Con ordinanza 16 aprile 2002 n. 1464 la Sezione ha respinto la domanda di sospensione degli effetti della sentenza.
Alla pubblica udienza del 1° luglio 2005 la causa veniva trattenuta in decisione, ma, in relazione alla natura della controversia e delle censure dedotte, la Sezione, con decisione 7 novembre 2005 n. 6162, ha disposto un incombente istruttorio, riservando ogni valutazione sull’ammissibilità, sul merito e sulle spese.
In particolare è stato ordinato all’Assessore all’urbanistica della Provincia di Cuneo, con facoltà di delega a funzionario tecnico dirigente del medesimo Assessorato, di verificare se la concessione edilizia 19 dicembre 2001 n. C01/0231, rilasciata dal Dirigente del Settore urbanistica ed assetto del territorio del Comune di Savigliano, in favore della D. di L. G. e C. s.a.s. per ristrutturazione di fabbricato, ubicato su area censita in catasto terreni/fabbricati al foglio 111, mapp. 98 e 480, consentisse la realizzazione di un immobile di volumetria superiore a quella preesistente sulla medesima area, come accertabile in base alla documentazione disponibile.
In data 9 gennaio 2006 l’arch. Enzo Fina, incaricato della consulenza, ha depositato la sua relazione.
In relazione a tale deposito l’appellante e la Immobiliare Santarosa hanno depositato memorie.
Alla pubblica udienza del 28 marzo 2006 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
Il motivo centrale dell’appello in esame consiste nella contestazione della legittimità della concessione edilizia rilasciata alla controparte, assumendosi che il provvedimento ha consentito un intervento edificatorio, che, pur qualificato come ristrutturazione edilizia totale secondo la normativa edilizia comunale, non sarebbe riconducibile alla detta tipologia, quale emerge dall’art. 31 della legge n. 457 del 1978, e successive modificazioni, come interpretato dalla consolidata giurisprudenza.
L’appellante ha denunciato che l’edificio, realizzato in conformità alla concessione, presenta caratteristiche radicalmente diverse da quello preesistente, per numero di piani (3 e non più 2), per altezza, per volumetria e sagoma complessiva, posto che il corpo di fabbrica in precedenza allungato a forma di L capovolto, rispetto al fronte di Via Novellis, viene ora a formare, in pianta, la figura di una T rovesciata.
Per stessa ammissione del Comune (memoria del 10 giugno 2005) l’unico elemento rimasto immutato sarebbe il fronte su via Novellis, e quindi risulterebbe rispettato sia l’art. 8 delle NTA, che ammette la realizzazione di un organismo in tutto diverso dal precedente, sia l’art. 3 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, che reca analoga disposizione.
Ai fini dell’esame della censura, assume rilievo, come è evidente, l’esito della consulenza tecnica disposta dalla Sezione, con lo scopo di verificare il rispetto della normativa edilizia vigente, con particolare riguardo al rispetto della volumetria preesistente in sede di progetto della nuova edificazione.
Va premesso che l’art. 3 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, all’epoca dei fatti, definiva «interventi di ristrutturazione edilizia», "gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'àmbito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica."
Il comma finale dello stesso articolo 3 dispone: " Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi."
Tanto premesso, la consulenza tecnica ha confermato che la nuova costruzione presenta rilevanti modificazioni di sagoma dell’edificio nuovo rispetto al preesistente, nel numero dei piani ( 3 invece di 2), nell’altezza, che è maggiore di ml 2,70, e nell’area di sedime, per posizionamento della manica traversa all’interno del lotto, mentre il volume è valutato inferiore al precedente.
Osserva il Collegio che con la concessione impugnata si è autorizzato un intervento di ristrutturazione edilizia non conforme a questa detta tipologia.
A tale riguardo va ricordato che già l’art. 31, lett. d), della legge 5 agosto 1978, n. 457, definiva lavori di ristrutturazione edilizia "quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi impianti". La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ripetutamente chiarito che, ai sensi della norma avanti citata, il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione assicuri la piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto, e venga, comunque, effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (si veda fra le tante: C. Stato, sez. V, 3 aprile 2000, n. 1906).
Infatti, l'articolo 31 è formulato in modo di favorire le opere migliorative eseguite su manufatti già esistenti. Al riguardo, è significativo che la disposizione considera espressamente l'elenco delle attività disciplinate come "interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente". In particolare, poi, l'art. 31, lettera d), qualifica la ristrutturazione edilizia come intervento volto a "trasformare gli organismi edilizi". In tal modo, dunque, il legislatore indica con chiarezza che l'intento perseguito è quello di agevolare il recupero estetico e funzionale di manufatti già inseriti nel tessuto edilizio, senza determinare un incremento del carico urbanistico dell'area considerata.
La trasformazione dell'edificio preesistente, finalizzata al suo recupero funzionale, può essere compiuta anche attraverso la demolizione radicale e la ricostruzione (fedele) di parti rilevanti del manufatto, specie quando ciò risulti più conveniente sotto il profilo tecnico od economico. E la Sezione ha ulteriormente allargato questa possibilità, estendendola alle ipotesi di totale demolizione e ricostruzione dell'edificio.
È stato sottolineato, tuttavia, che, anche in questo caso, l'intervento assentito con la concessione di ristrutturazione resta nell'ambito dell'articolo 31, lettera d), purché il nuovo edificio corrisponde pienamente a quello preesistente.
Al riguardo, è significativa la circostanza che la giurisprudenza segue un orientamento rigoroso, imponendo la piena conformità di sagoma, volume, e superficie, tra il vecchio ed il nuovo manufatto.
Nello specifico contesto del recupero del patrimonio edilizio esistente, quindi, la demolizione effettuata dallo stesso interessato (preventivamente e regolarmente assentita dall'amministrazione comunale) rappresenta lo strumento necessario per la realizzazione del risultato finale, costituito dal pieno ripristino del manufatto.
E’ appena il caso di aggiungere, poi, che tale conclusione non sarebbe diversa ove volesse farsi riferimento alle disposizioni di cui all’art. 3 del D.P.R. 6 giugno 1980, n. 380, che, come accennato, nel testo vigente all’epoca del rilascio della concessione impugnata, menzionava in criterio della "fedele ricostruzione" come indice tipico della ristrutturazione edilizia.
Anche se, per effetto della normativa introdotta dall’art. 1 del d.lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, peraltro non applicabile alla fattispecie, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, non per questo vengono meno i limiti che ne condizionano le caratteristiche e consentono di distinguerla dall’intervento di nuova costruzione: vale a dire la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (Cons. St., Sez. IV, 28 luglio 2005 n. 4011).
Nella specie, seppure il c.t.u., con non trascurabili cautele, abbia creduto di concludere che il volume realizzato fosse inferiore al preesistente, va tenuto conto della rilevata inosservanza del limite insito nel rispetto delle caratteristiche strutturali del vecchio edificio, per quanto concerne l’altezza e il numero dei piani.
A tale riguardo nessun rilievo può attribuirsi alla circostanza che l’art. 14 delle NTA consenta, negli interventi ricostruttivi, l’altezza di m. 10,50, perché in tal modo si viene a prescindere totalmente dal vincolo del rispetto della sagoma originaria, prescritto dalla ricordata normativa di rango legislativo.
In conclusione l’appello deve essere accolto.
In ragione della soccombenza, il compenso da corrispondere al funzionario incaricato della consulenza tecnica, fissato in Euro 2000,00= dalla decisione della Sezione 7 novembre 2005 n. 6162, va suddiviso in parti eguali, e posto a carico del Comune di Savigliano e della Immobiliare Santarosa di L. G. e C., s.a.s..
Sussistono valide ragioni per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie l’appello in epigrafe e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, annulla il provvedimento impugnato in primo grado;
condanna le parti resistenti al pagamento de compenso da corrispondere al consulente tecnico d’ufficio, come in motivazione;
dispone la compensazione delle spese;
ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 marzo 2006 con l'intervento dei magistrati:
Sergio Santoro Presidente
Giuseppe Farina Consigliere
Aldo Fera Consigliere
Marzio Branca Consigliere est.
Nicola Russo Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Marzio Branca F.to Sergio Santoro
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 30 agosto 2006.

sabato 18 novembre 2006

Decreto ingiuntivo non opposto: accoglimento parziale e ambito del giudicato

Cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 2 febbraio-1 marzo 2006, n. 4510
(Presidente Carbone – Relatore Finocchiaro)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto 4 novembre 1991 il presidente del Tribunale di Bari ha ingiunto alla Regione Puglia di pagare alla Italtec Srl la somma di lire 3.944.588.752 «oltre gli interessi nella misura legale del 10% a decorrere dalla data di notificazione» del decreto e fino al soddisfo, interessi che, nel relativo ricorso, erano stati invece richiesti dalla creditrice «dalla data delle fatture al saldo».Il decreto non è stato opposto e, all’esito della procedura esecutiva, la creditrice ha incassato in data 20 maggio 1992 gli importi ad essa dovuti.Successivamente, con sentenza del 12 maggio 1995 il Tribunale di Bari, pronunciando nel contraddittorio delle parti, ha rigettato la domanda successivamente proposta, in via ordinaria, dalla stessa creditrice neiconfronti della Regione Puglia, diretta ad ottenere, sulla somma di lire 3.944.588.572 già incassata, gli interessi legali ed il risarcimento del danno da svalutazione monetaria dalla data delle relative fatture e fino al 20 maggio 1992.Tale decisione, impugnata dalla parte soccombente, è stata confermata dalla Corte di appello con la sentenza 20 dicembre 1999.Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso, affidato a tre motivi e illustrato da memoria, con atto 2 febbraio 2001, la Italtec Srl.La Regione resiste con controricorso.La terza sezione, cui il ricorso è stato inizialmente assegnato, con ordinanza 11440/04 ha rimesso gli atti al Primo Presidente, avendo ravvisato, sulla problematica inerente all’ambito oggettivo del giudicato, formatosi per effetto della mancata opposizione a decreto ingiuntivo e, in particolare, per il caso in cui il decreto non opposto abbia, come nella specie, accolto parzialmente la domanda del creditore in sede monitoria, un contrasto all’interno della giurisprudenza di legittimità.Per la composizione del contrasto sono state investite queste Su, ai sensi dell’articolo 374, comma 2, Cpc.
Motivi della decisione
1. Come riferito in parte espositiva, il presidente del Tribunale di Bari ha ingiunto alla Regione Puglia di pagare alla Italtec Srl la somma di lire 3.944.588.752 «oltre gli interessi nella misura legale del 10% a decorrere dalla data di notificazione» del decreto e fino al soddisfo, ancorché tali interessi nel relativo ricorso fossero stati richiesti con decorrenza «dalla data delle fatture al saldo».Il decreto non è stato opposto.Incassati dalla creditrice gli importi ad essa dovuti, sulla base del decreto, con sentenza del 12 maggio 1995 il Tribunale di Bari ha rigettato la domanda successivamente proposta, in via ordinaria, dalla stessa creditrice nei confronti della Regione Puglia, diretta ad ottenere, sulla somma di lire 3.944.588.572 [già incassata), gli interessi legali ed il risarcimento del danno da svalutazione monetaria dalla data delle relative fatture e fino al 20 maggio 1992.Tale decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Bari con la sentenza 20 dicembre 1999.Ha osservato la Corte che il decreto ingiuntivo ha riguardato anche gli interessi al tasso legale del 10% dalla data delle fatture al saldo talché la domanda ad essi relativa è preclusa dal giudicato formatosi per effetto della mancata opposizione, e gli stessi interessi erano stati riscossi nel corso della procedura esecutiva e l’appellante non aveva provato di aver subito ‑ a decorrere dalla data della costituzione in mora (notifica del decreto ingiuntivo) ‑ un danno di ammontare superiore agli interessi, cosi liquidati.2. Con il primo motivo la ricorrente Italtec Srl censura la sentenza impugnata lamentando «violazione dell’articolo 2909 Cc in relazione all’articolo 360 comma 1, n. 5 Cpc o dell’articolo 360 comma 1, n. 3 Cpc ovvero delle norme che saranno individuate dalla Corte in riferimento alla erronea pronuncia contenuta nella sentenza impugnata di inammissibilità della domanda proposta .. per l’esistenza di giudicato interno».3. Come già accennato in parte espositiva, giusta un primo, più risalente, indirizzo giurisprudenziale il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata sostanziale in relazione al diritto in esso consacrato (Cassazione 2326/67) e, cioè, solamente in relazione al credito del quale il giudice ha ingiunto il soddisfacimento e non anche in relazione al diritto rispetto al quale nessuna ingiunzione e stata emessa (Cassazione 1244/74, resa in una fattispecie in cui il decreto ingiuntivo non opposto aveva accolto la domanda del creditore limitatamente al pagamento della sorte capitale escludendo gli interessi: in applicazione del riferito principio questa corte ha negato che su questa ultima richiesta si fosse formato un accertamento negativo, preclusivo della proposizione di tale pretesa in sede ordinaria).Sempre in questo ordine di idee si è affermato, ancora che:‑ il decreto ingiuntivo non opposto acquista, al pari di una sentenza di condanna, autorità di cosa giudicata sostanziale soltanto in relazione al credito (ancorché non corrispondente a quello vantato dall’istante) di cui si è ingiunto il pagamento, con la conseguenza, pertanto, che al lavoratore che abbia ottenuto con decreto monitorio, il pagamento del (solo) suo credito originario non resta preclusa la richiesta degli interessi e della rivalutazione (ex articolo 429 Cpc) delle somme stesse all’uopo potendo egli riproporre la domanda in via ordinaria, o con richiesta di altro decreto ingiuntivo (Cassazione 3188/87);‑ nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, che sia stato emesso per una somma inferiore a quella indicata nel ricorso, il creditore può insistere nella sua originaria domanda, perché la notifica del decreto ingiuntivo non implica una sua acquiescenza alla implicita pronuncia di rigetto della domanda per la parte non accolta, atteso che questa pronuncia, per la natura della fase monitoria, non ha i caratteri di una statuizione suscettibile di passaggio in giudicato (Cassazione 7003/93);‑ la commisurazione dell’ambito oggettivo del giudicato non solo al dedotto, ma anche al deducibile, coerente conseguenza dell’accertamento ordinario cui si riferisce l’articolo 2909 Cc, non è, invece, compatibile con le peculiarità del procedimento per ingiunzione, strutturato, almeno nella fase propriamente monitoria, secondo regole finalizzate ad accertare non già la fondatezza o la infondatezza della pretesa creditoria, ma esclusivamente la sussistenza di elementi sufficienti a giustificare l’ingiunzione, per cui quando il creditore della prestazione assistenziale della quale sia stata tardivamente pagata la sola soma capitale abbia richiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo relativo al pagamento degli interessi legali su tale somma, ben può lo stesso proporre, successivamente al passaggio in giudicato di questo, un’altra azione per richiedere, sulla base dello stesso fatto costitutivo, la rivalutazione monetaria sul medesimo importo (Cassazione 6 9857/02).Al riguardo, sostanzialmente nella stessa ottica della giurisprudenza ricordata sopra, si è precisato al altresì, sempre nella giurisprudenza di questa Corte, che:‑ un decreto ingiuntivo non opposto, richiesto ed ottenuto per una frazione soltanto del credito risultante, per l’intero, da un’unica fattura di maggior importo, non è idoneo a rivestire, in un successivo giudizio di opposizione ad altro e successivo decreto ottenuto per altra frazione dello stesso credito, forza e natura di giudicato, né interno (trattandosi di diverso processo), né esterno o implicito (trattandosi non di rapporto presupposto, ma di altra «porzione» del medesimo rapporto obbligatorio, controverso quoad executionis) (Cassazione 7400/97);‑ l’improcedibilità dell’opposizione fa acquistare al decreto ingiuntivo, indipendentemente dal decreto di esecutività, l’efficacia di cosa giudicata sostanziale in relazione al diritto in esso riconosciuto. L’autorità di cosa giudicata sostanziale è, però, limitata all’accertamento positivo del credito di cui viene ingiunta la soddisfazione e non è, perciò, preclusiva di altre azioni (quale quella di revocazione e quella di accertamento del dovuto in base alle variazioni degli indici Istat per il periodo successivo a quello preso in esame nel decreto ingiuntivo divenuto esecutivo) (Cassazione 13443/01).4. In termini opposti, rispetto alla giurisprudenza richiamata sopra in altre occasioni questa Corte ha affermato ‑peraltro ‑ che l’ambito oggettivo del giudicato va valutato in relazione alla richiesta fatta valere in giudizio.Pertanto, nell’ipotesi in cui sia stato ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento degli interessi legali sulle somme erogate in ritardo dal ministero dell’Interno a titolo di indennità di accompagnamento, il giudice cui sia stata successivamente richiesta la rivalutazione monetaria su dette somme non può disattendere la eccezione di precedente giudicato sollevata dal convenuto basandosi soltanto sulla statuizione contenuta nel decreto ingiuntivo non opposto, dovendo invece desumere la portata preclusiva di quel giudicato dalla domanda di ingiunzione proposta, atteso che, ove in quella sede fosse stata richiesta anche la rivalutazione monetaria, si sarebbe formato in relazione a tale richiesta, implicitamente disattesa, il giudicato di rigetto, con conseguente preclusione della domanda nei successivi giudizi (Cassazione 499/99; 2304/99).Analogamente, in altre occasioni, dalla premessa che la rivalutazione monetaria è una componente dell’originario credito previdenziale o assistenziale, di cui condivide la natura giuridica, si è affermato che allorché il creditore della prestazione, della quale sia stata tardivamente pagata la sola somma capitale,promuova l’azione giudiziaria per gli interessi legali su tale somma, ottenendo un decreto ingiuntivo o una sentenza di accoglimento, passati in giudicato, egli non può più proporre successivamente un’altra azione per richiedere, sulla base dello stesso fatto costitutivo, la rivalutazione monetaria sul medesimo importo.Si è affermato, infatti, che l’autorità di giudicato conseguente al decreto ingiuntivo non opposto (nella specie emesso per il pagamento degli interessi legali sulle somme erogate in ritardo dal ministero dell’Interno a titolo di indennità di accompagnamento) copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, restando cosi precluse tutte le questioni costituenti il presupposto logico, essenziale ed indefettibile della pronuncia (Cassazione 4426/00).5. Ritiene il Collegio che il contrasto vada composto privilegiando il primo degli enunciati indirizzi, sulla base delle osservazioni che seguono, con conseguente accoglimento del primo motivo di ricorso.5.1. In primo luogo, a premessa del discorso che seguirà, è opportuna una precisazione.Nonostante il diverso apprezzamento talvolta espresso in dottrina, nessuna norma positiva prescrive ‑ né expressis né per implicito ‑ che il giudice del monitorio è tenuto, alternativamente, o a accogliere per l’intero la domanda o a rigettarla totalmente.Deve concludersi, pertanto, che nulla si oppone ‑come del resto è quotidiano nella pratica giudiziaria ‑perché il giudice adito accolga solo «in parte» la domanda di ingiunzione, sul presupposto che solo «in parte» sussistono le condizioni di ammissibilità volute dagli articoli 633 e ss. Cpc.5.2. Contemporaneamente, sempre in limine, si osserva che l’articolo 640 Cpc espressamente prevede che il decreto di rigetto della domanda proposta in via monitoria non pregiudica la riproposizione della domanda stessa anche in via ordinaria.Con la conseguenza, pertanto, che il provvedimento con il quale il giudice rigetta la domanda di ingiunzione, nonostante il carattere decisorio, essendo inidoneo ad acquistare autorità di cosa giudicata, non rientra tra le sentenze impugnabili con ricorso per cassazione, ai sensi dell’articolo 111 cost. (Cassazione 1148/81; 31/1983, 32, 44 e 45).Pacifico quanto precede osserva il Collegio che non risultano, né nelle altre disposizioni relative al procedimento di ingiunzione, né nelle regole generali fissate con riguardo alle «impugnazioni» e alla cosa giudicata formale e sostanziale, elementi che consentano di affermare che il provvedimento di «rigetto» della domanda di ingiunzione è soggetto a un regime «diverso» a seconda che il rigetto stesso riguardi la «intera» domanda fatta al giudice o solo una parte di questa.Deve escludersi, altresì, che sia possibile ‑ come pure è stato suggerito ‑ nell’ambito del provvedimento di «rigetto parziale» della domanda di ingiunzione distinguere a seconda che la «domanda» non accolta sia, o meno, «autonoma», rispetto a quella accolta.Con la singolare conseguenza, pertanto, che ove siano stati azionati due crediti distinti e solo per uno è stata emesso provvedimento monitorio, il creditore può riproporre la domanda non accolta anche in via ordinaria, mentre qualora uno solo sia il credito, e il giudice abbia «parzialmente» accolto la richiesta, per la parte rigettata (come nella specie, quanto agli interessi maturati sino a una certa data) si forma la «cosa giudicata» o, comunque una «preclusione» che impedisce la riproposizione della richiesta per i «capi» sui quali vi è stata reiezione esplicita (o, eventualmente, implicita) da parte del giudice del monitorio.In realtà occorre ribadire che la disposizione di cui all’articolo 640 Cpc è una necessaria conseguenza della inimpugnabilità del provvedimento di rigetto e della natura del procedimento monitorio, nel quale la pronuncia di rigetto emessa inaudita altera parte, non può avere il valore di un accertamento negativo della domanda dell’ attore (in termini, ad esempio, Cassazione 3408/56, in motivazione).Tali principi ‑ in quanto non contraddetti da alcuna disposizione espressa (o incompatibile con essi) contenuta nel codice di rito ‑ devono valere, come già osservato da remota giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cassazione 3408/56, cit., in motivazione), anche nel caso di rigetto parziale, ricorrendo la medesima situazione e la medesima esigenza di tutela del diritto dell’attore.5.3. Contrariamente a quanto evidenziato da parte di alcune pronunzie di merito e privilegiato da autorevole dottrina, ancora, deve escludersi che il «giudicato» (o, come da alcuni si sostiene la «preclusione pro ludicato) quanto alla domanda (o parte di domanda) non accolta derivi dalla notifica, su istanza del creditore, al debitore, del decreto [che ha accolto parzialmente la sua richiesta].La notificazione del decreto, infatti è necessaria al fine di evitare che esso divenga inefficace ai sensi dell’articolo 644 Cpc.Tale notifica, pertanto, non rivela affatto una acquiescenza a esso, per la parte in cui contiene un rigetto della domanda, ma rivela soltanto la volontà del creditore di avvalersene e, cioè di evitarne la caducazione, per la parte per la quale la domanda è stata accolta.Ciò è in armonia, del resto, con il principio, costantemente affermato, che la notificazione della sentenza in forma esecutiva non importa rinuncia alla impugnazione per i capi sfavorevoli.Se fosse esatto l’assunto della dottrina sopra richiamata [e, supposto dalla sentenza ora oggetto di ricorso) il creditore, nel caso di accoglimento parziale della domanda, dovrebbe lasciar decorrere il termine stabilito dall’articolo 644 senza notificare il decreto, e, successivamente, divenuto inefficacia il decreto per la mancata notificazione, dovrebbe proporre nuovamente la domanda per l’intero credito.L’accoglimento parziale, pertanto, costituirebbe una pronuncia assai più sfavorevole del rigetto totale, costringendo il creditore a una lunga attesa che potrebbe pregiudicare irrimediabilmente la soddisfazione del suo diritto (al riguardo, cfr., Cassazione 3408/56, cit., in motivazione).5.4. Attesa la natura del decreto monitorio questo, divenuto definitivo per la mancata opposizione dell’ intimato, ha una efficacia assimilabile a quella della sentenza, per la parte con cui ha accolto la domanda: non l’ha, invece. per la parte con cui l’ha respinta, perché la reiezione non è una pronunzia di accertamento negativo a favore del convenuto, non presente nel procedimento.È sufficiente, al riguardo, considerare che mentre l’intimato può provocare il contraddittorio con la opposizione e ottenere la reiezione della domanda, accolta dal decreto, l’istante non ha la possibilità di provocare un processo in contraddittorio, ma solo quella, riconosciutagli dall’articolo 640 Cpc, di agire separatamente per l’accoglimento della parte della domanda non accolta.5.5. Irrilevante, al fine di pervenire a una diversa conclusione, ancora, è il rilievo che il creditore con la notifica del «decreto» che ha accolto, parzialmente, la sua domanda notifica il ricorso contenente la diversa [maggiore] pretesa azionata e, per I’ effetto, sollecita il contraddittorio anche sulla «maggiore» domanda (per la parte non accolta).È esatto, infatti, che per aversi cosa giudicata non è necessario il contraddittorio effettivo, bensì la provocazione a contraddire a una domanda giudiziale, che rappresenta la conditio sine qua non perché il provvedimento di merito acquisti efficacia di cosa giudicata, ma tali principi ‑ come evidenziato sopratrasferiti al procedimento per ingiunzione non possono condurre a una conclusione diversa da quella sopra indicata.La struttura del procedimento sommario, infatti, fa si che il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo sia univoco, e cioè limitato all’accoglimento della domanda, perché solo in questo caso la valutazione della prova da parte del giudice, combinandosi con la mancata opposizione dell’intimato che vale come conferma della fondatezza della domanda, in quanto è indice della giustizia del provvedimento, dà al decreto quel fondamento dal quale gli deriva poi l’efficacia di cosa giudicata.Se la provocazione a contraddire è, infatti, necessaria per completare nell’ingiunzione l’accertamento sommario del giudice, nel caso che la domanda venga respinta in toto manca assolutamente la possibilità di instaurare il contraddittorio e viene meno quindi quel complemento indispensabile del provvedimento che è rappresentato dall’acquiescenza dell’intimato.Analogamente, nel caso di rigetto parziale, che per sua natura partecipa del rigetto e dell’accoglimento,si ha in via reciproca una pronuncia positiva parziale e, quindi, una litispendenza ristretta nei confronti della parte di domanda che è stata accolta, mentre sul resto non vi è alcuna possibilità di costituire il contraddittorio, cosicché, mancando tale presupposto, viene meno la possibilità che il decreto acquisti autorità di cosa giudicata sul punto.5.6. L’assunto che qui si critica, inoltre, non considera che ove il giudice, adito con ricorso per ingiunzione, «rigetta», ancorché parzialmente, la domanda, la rigetta non perché la stessa non trova, in assoluto, alcun riscontro [è, cioè, infondata) ma perché fanno difetto le «condizioni di ammissibilità» di cui agli articoli 633 e ss. Cpc.È palese, pertanto, che l’eventuale giudicato (o preclusione da giudicato) riguarda non ‑ come affermato dalla sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione ‑la «fondatezza» della [porzione di] pretesa non accolta, ma ‑ esclusivamente ‑ l’assenza, al momento della iniziale domanda, delle condizioni per l’emissione di un decreto ingiuntivo su «tutte» le richieste formulate nella domanda per ingiunzione.5.7. Al fine di pervenire a una soluzione diversa da quella sopra indicata come corretta ‑ da ultimo ‑non è pertinente neppure l’invocazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.Giusta tale ultimo assunto, passato in cosa giudicata il decreto non opposto quanto alla somma capitale reclamata, non può più invocarsi, in un successivo giudizio, una pronunzia sui soli interessi.E ciò sia nella eventualità questi non siano stati originariamente chiesti, sia nella diversa ipotesi in cui ‑ come nella specie ‑ benché richiesti non sono stati attribuiti dal giudice del monitorio.Con riguardo alla eventualità (unica ricorrente nel presente giudizio e sulla quale queste Su sono chiamate a pronunciarsi) la domanda di interessi è stata proposta dal creditore e non accolta dal giudice è evidente la non applicabilità del principio esposto sopra.Non solo, infatti, la pretesa del creditore, quanto agli interessi, nel caso di specie, è stata «dedotta» espressamente (e non era unicamente astrattamente «deducibile») ma mancano nel sistema positivo rimedi ‑ diversi da quelli indicati dall’articolo 640 Cpc («riproposizione della domanda anche in via ordinaria») ‑ a favore del creditore in caso di rigetto di parte della domanda (specie nella eventualità, come nel caso inesame, in cui l’intimato abbia omesso di fare opposizione, avverso il decreto emesso).Il discorso, infine, allo stato della giurisprudenza attualmente maggioritaria, non muta neppure nella eventualità il creditore ometta di chiedere la condanna del proprio debitore oltre che al pagamento della somma capitale anche degli interessi.Giusta quanto affermato da queste Su, in sede di risoluzione di altro contrasto nell’ambito delle sezioni semplici, infatti « è ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni» (Cassazione, Su, 108/00).6. Non essendosi , il giudice del merito, attenuto ai principi di diritto di cui sopra il primo motivo del ricorso deve accogliersi con assorbimento dei restanti.All’accoglimento del primo motivo segue la cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Bari perché si uniformi al seguente principio di diritto: «il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità e efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto consacrato e non con riguardo dalle domande, o ai capi di domanda non accolti. La regola contenuta nell’articolo 640, ultimo comma Cpc (secondo cui il rigetto della domanda di ingiunzione non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in sede ordinaria), infatti, trova applicazione sia in caso di rigetto totale della domanda di ingiunzione che di rigetto parziale (e, quindi, di accoglimento solo in parte della richiesta)».Il giudice di rinvio provvederà, altresì, sulle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di cassazione, a Su accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri,cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della corte di appello di Bari, anche per le spese di questo giudizio di legittimità.
Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione il giorno 2 febbraio 2006.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 MAR 2006.

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